giovedì 25 settembre 2008

Roma antica, il mito del «sistema perfetto»

Corriere della Sera 25.9.08
Il conflitto tra ordine e sovversione nel mondo classico: un convegno della Fondazione Canussio. Il passato (e il futuro) della democrazia
Roma antica, il mito del «sistema perfetto»
Lo storico greco Polibio esaltò la «costituzione mista», ma fu smentito dalla crisi dei Gracchi
di Luciano Canfora

«Democrazia » torna ad essere una parola problematica e di combattimento, come nelle sue origini ateniesi quando era per lo più usata come disvalore da parte dei suoi implacabili critici. Non solo: si torna liberamente a criticarla proprio negli ambienti che l'avevano brandita come bandiera da guerra fredda. Si torna a chiedersi quali siano i necessari correttivi (l'orribile neologismo «governabilità » è spesso adoperato a questo proposito), quali siano i limiti tollerabili, quale il contrasto di fondo con il criterio della competenza (è l'antica obiezione dei pensatori ateniesi); per non parlare dell'invito ad una presa d'atto dell'inevitabilità del principio oligarchico al di sotto della corteccia democratica. È qui la radice della riscoperta anglosassone del sistema «misto» e della romana costituzione mista, come la intese Polibio: si pensi agli studi di Neil MacCormick.
Parallelamente torna a vigoreggiare, tra i nostri studiosi del mondo romano, la tendenza a definire democrazia l'ordinamento costituzionale romano, o per lo meno la sua prassi tardo-repubblicana: ordinamento che invece a Polibio (libro VI) e al suo emulo-interprete Machiavelli ( Discorsi sulla prima deca di Tito Livio) parve l'esempio perfetto di costituzione mista. La discussione non è nuova se solo si pensa alla diverse posizioni sostenute in proposito da due grandi romanisti quali Francesco De Martino e Antonio Guarino. Ma ora, significativamente, la visione di Roma repubblicana come democrazia viene rilanciata da uno storico di spicco quale Fergus Millar ( The Crowd in Rome in the Late Republic)
proprio negli Stati Uniti d'America — e l'accoglienza è stata entusiasta, «Historians Give Romans Better Marks in Democracy», titolò il New York Times (23 luglio 1999). E questo si spiega nella realtà, quella americana, dove la trasformazione del meccanismo democratico in costituzione mista è più avanzato e consolidato.
Oltre mezzo secolo fa Kurt von Fritz, uno dei maggiori storici del pensiero antico, passato dalla Germania agli Usa già negli anni Trenta, scrisse un imponente trattato The Theory of the Mixed Constitution in Antiquity: a Critical Analysis of Polybius' Political Ideas (Columbia University Press, 1951) partendo dal presupposto non erroneo secondo cui «nessuna parte della teoria politica antica ha avuto maggior influenza sulla moderna politica (né solo sulla prassi) che la teoria della mixed constitution ». Essa ha avuto in Polibio, greco trapiantato a Roma come ostaggio di guerra e ben presto conquistato alla totale ammirazione del «modello» romano, il suo più convinto assertore.
Una tale costituzione parve a Polibio il vero fondamento della solidità e della durevolezza di Roma. Egli riteneva che ciò fosse apparso chiaro in special modo nel momento del massimo tracollo, al tempo della disfatta di Canne. Roma aveva dimostrato appunto in quella circostanza il massimo di capacità di resistenza, e ciò — secondo Polibio — appunto grazie al suo ordinamento. È questa la ragione per cui il libro dedicato alla costituzione romana, il VI, trova posto, nell'economia generale dell'opera, come prosecuzione del racconto relativo a Roma dopo la celebre e sfortunata battaglia.
Il libro VI però non incomincia in medias res con la descrizione dell'ordinamento politico romano. A tale descrizione si giunge dopo un'ampia premessa: dopo uno svolgimento, che occupa la prima parte del libro, rivolto a classificare i vari generi di costituzioni e a svelare il meccanismo del loro incrinarsi e trasmutarsi in altri e diversi ordinamenti. Per quel che riguarda la classificazione delle costituzioni, Polibio ha ben presente l'impianto platonico e aristotelico, che «raddoppia», per così dire, le forme politiche con la distinzione tra forme «pure» e forme «degenerate » (monarchia/tirannide; aristocrazia/ oligarchia; democrazia/oclocrazia). È una distinzione caratteristica del pensiero antidemocratico. Si può dire, schematizzando, che la più plausibile risposta al quesito intorno alle fonti della teoria polibiana del ciclo costituzionale sia che si tratta in sostanza dell'VIII libro della Repubblica platonica (Platone è l'unico autore che Polibio cita in questo contesto) ma letto alla maniera in cui lo leggeva (irrigidendolo) Aristotele. Polibio ha, sulla scia di Aristotele, assunto la successione tracciata da Platone come un itinerario storico-genetico.
Merito di Platone è considerata l'introduzione dei «doppi», delle forme «degenerate» accanto a quelle pure. Ed è certo lì l'origine della teoria del mutamento. Senza la nozione tipicamente dinamica di «degenerazione» non vi sarebbe altro che la immobile paratassi delle tre forme tradizionali (alla maniera, per fare qualche esempio, del preambolo della Ciropedia di Senofonte o del pretenzioso esordio del Contro Ctesifonte
di Eschine). Non a caso la spinta verso il mutamento viene dalla pleonexía, dal «comportamento prevaricatore» del gruppo dominante, mentre la reazione a tale degenerazione dà vita a nuove forme politiche. È qui il nesso tra degenerazione e movimento. Ma la radice più remota di una tale riflessione — i cui elementi costitutivi sono lo sdoppiamento delle forme, la nozione di degenerazione ed il ciclo — è da cercarsi ancora più indietro: è nel dibattito costituzionale erodoteo (III, 80-82), la cui fonte d'ispirazione è nella riflessione politica della sofistica (per esempio le Antilogie di Protagora).
Il compendio polibiano ha avuto notevole fortuna. Ma tale fortuna è dipesa non tanto dalla originalità (invero scarsa) della riflessione teorica, quanto dal fatto che ad essa si collega una innovativa interpretazione dell'ordinamento politico romano. Polibio è fiero di tale novità. Del durevole prestigio che questo piccolo manuale costituzionale, incorporato da Polibio nella sua opera, ha goduto agli albori del pensiero politico moderno è segno chiaro la parafrasi, e talvolta letterale ripresa, che ne fa Machiavelli nel I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-1519), intitolato appunto Di quante spezie sono le repubbliche e di quale fu la repubblica romana.
Ai moderni questa classificazione non basta più. La contestazione alla radice del modello classico delle sei forme costituzionali (tre pure e tre degenerate) verrà un secolo dopo, da Thomas Hobbes. Quella distinzione suscita il suo sarcasmo e viene da lui fatta risalire appunto agli «scrittori greci e romani» e ai loro moderni seguaci: «Non ci si convincerà facilmente — scrive nel De Cive (VII, 3) — che il regno e la tirannide non sono specie diverse di Stato (…) In cosa differisca il re dal tiranno va ricercato con la ragione, non con la passione. In primo luogo, non differiscono nel fatto che il secondo abbia maggiore potere del primo, perché non si può dare potere maggiore di quello supremo. Neppure differiscono perché la potenza dell'uno è limitata e quella dell'altro no. Chi ha una potenza limitata non è re, ma suddito di chi gli pone limiti. Inoltre non differiscono per il modo in cui hanno conquistato il potere. Infatti, se in uno Stato democratico o aristocratico un cittadino si impadronisce con la forza del potere supremo, qualora ottenga il consenso dei cittadini, diviene monarca legittimo; altrimenti è un nemico, non un tiranno. Differiscono quindi solo per l'esercizio del potere: è re chi governa rettamente, tiranno chi governa in altro modo. La questione dunque si riduce a questo, che se i cittadini pensano che un re legittimamente innalzato al potere supremo esercita bene il suo potere, lo chiamano re; altrimenti tiranno. Perciò regno e tirannide non sono forme diverse di Stato; bensì allo stesso monarca viene dato il nome di re in segno di onore, e di tiranno in segno di disprezzo. Quello che si trova scritto nei libri contro i tiranni, trae origine dagli scrittori greci e romani, che erano governati in parte dal popolo e in parte dagli ottimati, e quindi odiavano non solo i tiranni ma anche i re». Aspro, ma decisivo.
Era bastata la crisi graccana a far saltare la «macchina perfetta» che aveva sedotto Polibio, persuaso di aver trovato a Roma la soluzione degli inesausti conflitti politici che avevano dilaniato le città greche.