venerdì 26 settembre 2008

Carneade a Roma

(…) quando l’anno 155 a. C. ( 599 d. U.) era venuta in Roma una delegazione Ateniese, per trattare una certa faccenda, politica, tutta la città si mise in fermento, perché i capi della delegazione erano, niente-dimeno, tre illustri filosofi, venuti da quella capitale del sapere che era la luce del mondo: e si chiamavan, quei gran professori, Carneade, dell’Accademia, cioè della scuola Platonica: Diogene, della Stoica; e Critolao della scuola Peripatetica, cioè Aristotelica; che era proprio come dire i capoccia delle tre più clamorose sètte le quali, insieme con la quarta o Epicurea, avevan raffinato la dialettica in dispute senza fine attorno a tutti i problemi massimi ed ultimi, sulla vita e- la morte, il bene e il male, il piacere e il dovere, il mondo e Dio, l’uomo e la città, eccetera eccetera. Gli Accademici insegnavano a dubitare, i Peripatetici a credere; gli Epicurei a godere, gli Stoici a soffrire. Si calunniavano a vicenda, a vicenda s’irridevano, con sfoggio di sentenze, d’arguzie, d’eloquenza e d’insolenza. Ma pure s’accordavano nel voler educare l’uomo al raziocinio e alla riflessione, riscattandolo dalle passioni.
Narra Plutarco che, sùbito, i giovani più studiosi di Roma si portarono a vìsitare quei professori e si trattenevano con loro a lungo, ascoltandoli con reverenza e ammirazione. — « Principalmente Carneade, colla sua grazia che era di una /orza grandissima, ebbe uditori d’alto rango, benigni e gentili, ed empi la città tutta, come un vento, di strepito e di rumore, così che correva voce e si diceva dovunque ch’era venuto un Greco di meravigliosa e soprannaturale eccellenza, il quale innamorava i giovani al punto che, trascurando ogni altro piacere e divertimento, essi si portavano alla filosofia come per entusiasmo. E i Romani ben volentieri vedevano i loro giovani figli applicarsi alla scienza dei Greci e conversare con quei personaggi portentosi. Ma Catone no. Fin dal principio egli ne aveva rincrescimento, temendo che la gioventù non prendesse ad amare la gloria che viene dalle parole più di quella che viene dalle opere e dalle imprese della milizia. Poi che ebbe veduto crescer ancora il credito di quei filosofi, e un senatore Romano — Gaio Acilio — tradusse in lingua Latina i loro colloqui e ragionamenti, Catone deliberò di far sì che con un decoroso pretesto fossero mandati via ».

Aldo Ferrabino, Nuova soria di Roma, Luminelli, Roma, Volume 2, 1942, pagina 243