sabato 29 dicembre 2007

Salviamo il colle sacro a Giano!

riportiamo dal sito:
http://portadigiano.net/forum/viewtopic.php?t=982
Salviamo il colle sacro a Giano!

aiutateci

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Il primo novembre scorso sul sacro colle di San Pietro(sarebbe in origine il sacrario di Giano.....) sono iniziati i lavori di distruzione.
Il giornale locale "L'arena di Verona" ne da ampia notizia affermando che si è scoperta una cisterna romana. Grancelli è dagli anni cinquanta che ha denunciato l'incuria e il disinteresse , e nel suo testo "Piano di fondazione di Verona romana" sottolineava la presenza verso quel luogo sacro che nel sottosuolo nasconde i tesori- pozzi e una cisterna romana ignorata costantemente dalla sovraintendenza.
Diffondente questo messaggio affinchè non mettano le mani sul sacrario, cariverona (la potente fondazione sopravvissuta alla fusione con Unicredit) vuole liberamente manomettere il punto più sacro della città.
Cariverona è strettamente legata all'Opus Dei.
TENTANO DI DISTRUGGERE L'ULTIMO SANTUARIO PAGANO FEDERATO DEL VENETO.


SALVIAMOLO DIFFONDETE IL MESSAGGIO

Giù le mani dal colle sacro ai pagani Giù le mani dal colle sacro ai pagani

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E da parecchio tempo che il luogo più sacro della città di Verona, il santo dei santi, fa gola all'Opus Dei. Come ultimo atto una compravendita giocata dalla fondazione Cariverona. Inoltre qualche mese fa sono stati operati dei carotaggi sul colle il tutto mi da pensiero, cosa si sta giocando?
Da anni si parla di come "riconvertire" il colle e la caserma austriaca che ne occupa il cuore. Le divinità pagane che da sempre dimorano sul quella terra lì devono rimanere a tutela della città, anzi sarebbe utile lasciare spazio agli antichi culti pagani, di chiese a Verona c'è ne sono anche troppe, basta!

L'antefatto:


Articolo apparso sul giornale "L’Arena" (2.12.1998) che descrive il clima di tensione sorto in alcuni ambienti di Verona alla notizia che il Castel S. Pietro verrebbe ceduto per la costruzione del Santuario della Madonna di Lourdes.

I DEMOCRISTIANI E I "ROSSI" ASSEDIANO CASTEL S. PIETRO
Per Castel San Pietro, scoppia, nel novembre del 1948, una piccola guerra di religione. A combatterla, ci sono da una parte i democristiani e dall’altra un’inedita coalizione che va dai comunisti ai liberali. Succede quando in Consiglio comunale si discute, tanto per cambiare, del futuro di quello che oggi si usa chiamare uno dei "contenitori" cittadini, il cui avvenire è tutt’ora incerto. In verità, la disputa del 1948 non riguarda solo l’edificio che sovrasta il colle ma anche e soprattutto le zone adiacenti.
La questione nasce in seguito a una richiesta presentata al Comune dai Padri Stimatini. Essi chiedono il "casermone", proponendo una sorta di permuta: poiché il fabbricato è a quell’epoca la sede dell’Istituto Ettore Calderara per l’infanzia abbandonata, essi si dichiarano disposti a realizzare a Villa Colombari un edificio più funzionale e moderno per l’Istituto. In cambio, intendono trasformare, con opportuni adattamenti, il "casermone" in un santuario. Ma la proposta suscita vivaci proteste.
In Consiglio, sia le forze di sinistra che i liberali giustificano la loro opposizione con il timore che i veronesi siano espropriati di un luogo da cui si può ammirare un paesaggio di grande suggestione, con una perdita che si ripercuoterebbe negativamente sul turismo. Al loro fianco, intervengono anche associazioni, come la Pro Verona e gli Amici del paesaggio, e un’istituzione, L’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere, che gode di un notevole prestigio culturale. In un suo ordine del giorno, l’Accademia ricorda che quel colle aveva ospitato "il primo nucleo" della città e che sia in epoca romana che medioevale vi erano sorti grandiosi monumenti. Ai richiami storici ed artistici, si uniscono quelli più prosaici ma non meno efficaci dell’Associazione albergatori, che paventa evidenti rischi per il turismo.
Gli ambienti cattolici, e, sul piano politico, quelli democristiani replicano prontamente. Essi dicono che tutto si basa su un equivoco, creato ad arte e in malafede dai comunisti. A loro avviso si tratta, è il caso di dirlo, di un castello di menzogne... Il progetto, infatti, non ha mai messo in discussione il piazzale panoramico, che resterebbe a disposizione della città. I comunisti, invece, hanno falsato la proposta, presentandola come "la conquista della rocca di Verona da parte degli Stimatini". Di conseguenza, chi è intervenuto in buona fede a difesa di un patrimonio comune dei veronesi, non ha capito di combattere una battaglia inutile, di lottare per qualcosa che nessuno intendeva togliergli.
L’equivoco per i democristiani è tutto qui: i comunisti si sono opposti per motivi politico-ideologici, poiché sono ostili per principio ad ogni iniziativa di tipo religioso e gli altri non hanno capito e li hanno appoggiati. Mentre il dibattito va avanti, il Consiglio comunale decide di non decidere, istituendo una commissione per studiare a fondo il problema. Poi, come è noto, il progetto degli Stimatini non verrà realizzato, ma, dopo cinquant’anni, del destino di Castel San Pietro si discute ancora.

Emanuele Lucani

CASTEL SAN PIETRO NON POTRA PERDERE LA SUA VOCAZIONE, DATO CHE PER MILLENNI E' STATO E SARA' IL SACRARIO FEDERATO DELLA PAGANITA' MONDIALE. LA DIVINITA' DI GIANO E' ANCORA VIVA E ATTIVA, DOBBIAMO PROTEGGERLA E RICHIAMARLA IN TUTTA LA SUA POTENZA

Sull'inventata persecuzione dei cristiani

Sull'inventata persecuzione dei cristiani
dal sito http://www.cancellidiasgard.net/forum/viewtopic.php?t=2474&postdays=0&postorder=asc&start=0
(...)
Mai Roma operò guerre di religione (ad eccezione di una piccola comunità che per culto faceva sacrificio di bambini) e mai mise in discussione la cultura del popolo conquistato. L'obiettivo era unire sotto una unica egida, quella di Giove Ottimo e Massimo, ossia la Legge, Zeus o Wotan (come si vuole chiamare), l'intero apparato sociale di una comunità globale e globalizzata, cosmopolita per la prima volta nella Storia. Per il motivo sopra accennato nessuna manovra fu fatta contro i galilei, come Giuliano imperatore usava chiamare, nessuna manovra se non di ordine sociale. Se atti giudiziali accaddero contro i cristiani fu per motivi di ordine sociale. Essi si riunivano in società segrete e non onoravano la genialità dell'Imperatore, chiave di volta del sistema sociale e politico romano. Essi si rifiutavano di pagare i tributi ed erano spesso fautori di disordini civili. Per questo e solo questo ordine di motivi di furono interessi "giuridici" al riguardo.
Esempi di lampante frode storiografica? I nomi dei primi martiri erano legati a nomi di divinità romane. Santo Marte o Santa Venere martire. Questo il primo tentativo di sgretolamento del sistema cultuale romano. Ancora, i primi veri torturati furono i gentili romani che con opera di diffusione del terrore furono altamente sterminati dai primi imperatori cristiani (maledetto sia il nome dell'usurpatore costantino). Esempi cinematografici hollywoodiani sono americaneggiatni esagerazioni. Ad esempio, il Colosseo, proprio per la sua posizione di fronte alla via Sacra assumeva un significato ermetico e mai sarebbero potuti accadere i fatti tragici di lotte animalesche oramai parte integrante dell'immaginario collettivo. Questo ed altro fu la sistematica distruzione dell'ordine romano.

(...)

La Morte di Claudio Flavio Giuliano di Ammiano Marcellino

La Morte di Claudio Flavio Giuliano di Ammiano Marcellino
Mentre venivano fatte queste cose, Giuliano, che giaceva sotto la tenda, disse a coloro che, avviliti e tristi, lo circondavano:
"Adesso giunge, o compagni, il tempo più adatto per allontanarsi dalla vita, che è reclamata dalla natura.
Esulto, come colui che sta per restituire un debito in buona fede.
Non sono afflitto e addolorato (come alcuni pensano).
Sono guidato dalla opinione generale dei filosofi che l'anima sia più felice del corpo.
E osservo che, ogni volta che una condizione migliore sia separata da una peggiore, occorre rallegrarsi piuttosto che dolersi.
Noto anche che gli dei celesti donarono ad alcuni molto religiosi la morte come sommo premio.
Ma so bene che quel compito mi è stato affidato non per soccombere nelle ardue difficoltà, né per avvilirmi, né per umiliarmi.
Ho imparato a conoscere per esperienza che tutti i dolori colpiscono chi è senza energia, ma cedono di fronte a coloro che persistono.
Non ho da pentirmi di quanto ho fatto, né mi tormenta il ricordo di qualche grave delitto.
Sia nel periodo in cui ero relegato in ombra e in povertà, sia dopo aver assunto il principato, ho conservato immacolata (o almeno così penso) la mia anima, che discende dagli dei celesti per parentela.
Ho gestito con moderazione gli affari civili e, con motivate ragioni, ho fatto e allontanato la guerra.
Tuttavia il successo e l'utilità delle decisioni non sempre concordano, poiché gli dei superni rivendicano a sé i risultati delle azioni.
Reputo che scopo di un giusto impero siano il benessere e la sicurezza dei sudditi.
Fui sempre propenso, come sapete, alla pace.
Ho allontanato dalle mie azioni ogni arbitrio, corruttore degli atti e dei costumi.
Me ne vado felice, sapendo che ogniqualvolta la repubblica, come imperioso genitore, mi ha esposto a pericoli prestabiliti, sono rimasto fermo, abituato a dominare i turbini degli eventi fortuiti.
Non sarà vergognoso riconoscere che da lungo tempo ho appreso da una predizione profetica che sarei morto mediante un ferro.
Perciò venero il sempiterno nume, perché non muoio per clandestine insidie, o tra i dolori delle malattie, né subisco la fine dei condannati, ma in mezzo a splendide glorie, ho meritato una illustre dipartita dal mondo.
E' giudicato pusillanime ed ignavo colui che desidera morire quando non è il momento opportuno e colui che tenta di sfuggire alla morte quando è il momento giusto.
Il parlare è stato sufficiente, ora il vigore delle forze mi sta abbandonando.
Per quanto concerne la nomina del nuovo imperatore, ho deciso cautamente di non pronunciarmi. Non voglio omettere per imprudenza qualcuno degno. Né voglio sottoporre a pericolo di vita qualcuno che ritengo adatto ad essere nominato, qualora un altro gli venisse preferito.
Ma come un bravo figlio della repubblica, desidero che si trovi dopo di me un buon imperatore."
...Essi tacquero, ed egli discusse approfonditamente con i filosofi Massimo e Prisco sulla sublimità delle anime. La ferita al fianco, dove era stato trafitto, si allargò. Il gonfiore delle vene gli impedì di respirare. Bevve dell'acqua gelida che aveva chiesto. In mezzo al terrore religioso della notte, venne sciolto senza difficoltà dalla vita. Aveva 32 anni.

Ecco Flora. E le romane si spogliavano

Eva Cantarella
Ecco Flora. E le romane si spogliavano
Tratto da “Corrriere della Sera”, 3 aprile 2007
Si chiamava Flora. Per i romani era la primavera, la stagione in cui sbocciano i fiori. Sin dai tempi più antichi veniva onorata con una festa campestre a scopo propiziatorio. I romani non facevano niente per niente, neanche in campo religioso: se onoravano una divinità era perché volevano qualcosa da lei: nel caso di Flora, chiedevano i benefici, anche economici, che in una società agricola, qual era Roma, dipendevano essenzialmente dalle condizioni climatiche. La festa di primavera, dunque, era mobile, e veniva celebrata in una data che variava a seconda che l' inverno fosse stato mite o rigido e protratto nel tempo. Solo in età successiva - quando la festa venne istituzionalizzata con il nome Floralia - si stabilì che le celebrazioni avessero luogo in data fissa, dal 28 aprile al 2 maggio. E a questo punto le cerimonie si moltiplicarono: accanto all' antica abitudine di coronare il capo con ghirlande di fiori vennero introdotti i mimi, piccole scene comiche nelle quali erano ammesse a recitare anche le donne: alle quali, si dice, gli spettatori chiedevano di spogliarsi sulla scena. Il clima, insomma era di grande allegria. Superfluo dire che la cosa non piaceva ai moralisti. Nel terzo secolo, a evidente scopo denigratorio, lo scrittore cristiano Lattanzio sostenne che Flora era una prostituta, e che i romani avevano istituito le feste in suo onore per ringraziarla di aver lasciato in eredità i suoi beni al popolo romano. Ma si confondeva con un' altra figura semidivina di nome Acca Larenzia. Niente a che vedere con Flora. Le feste di primavera continuarono tranquillamente, per secoli.

giovedì 27 dicembre 2007

Mura aureliane, record di danni Nessuno puntella il crollo. Tutti i punti più a rischio

ROMA - Mura aureliane, record di danni Nessuno puntella il crollo. Tutti i punti più a rischio
CARLO ALBERTO BUCCI
SABATO, 03 NOVEMBRE 2007 LA REPUBBLICA - Roma

Dopo l´incidente di giovedì sera, il Comune annuncia che il piano dei restauri è in via di definizione. Ma molti tratti sono in mano ai privati

Nessun operaio è venuto a puntellare i bordi slabbrati della ferita inferta nelle Mura Aureliane dal crollo di giovedì sera sul tratto di viale Pretoriano, alle spalle di San Lorenzo. È dal 2001 che i 19 chilometri di cinta muraria, il grande malato di Roma, un cordone di pietre antiche e rinascimentali che stanno in piedi per miracolo, perde i pezzi un sasso alla volta, in uno stillicidio di crolli (grandi e piccoli) cui il Comune ha fatto fronte con interventi di restauro costosissimi. Ma per mettere in sicurezza tutto il perimetro e farne finalmente un belvedere percorribile sulla Città Eterna, ci vorrebbe qualcosa come 100 milioni di euro, stimano i funzionari del Comune. Invece...
Subito dopo lo smottamento dell´altra sera di una parte della fodera cinquecentesca in blocchetti di tufo, la sovraintendenza ai Beni culturali del Comune ha telefonato all´ufficio Edilizia monumentale per far mandare, l´indomani mattina, una squadra che, già realizzata dai vigili del fuoco la recinzione per tenere lontani dal pericolo passanti e senza tetto, puntellasse la superficie adiacente al crollo: una parete pericolante, poiché parzialmente staccata dal nocciolo interno (le vere Mura Aureliane, rimaste intatte) costruito dal 270 al 273 d. C. Ma al funzionario hanno risposto che c´è il ponte dei morti, che nessuna ditta è disponibile, che «verremo forse lunedì».
Il sovraintendente, l´archeologo Eugenio La Rocca, ha annunciato che il tratto dove è avvenuto il cedimento, tra via dei Frentani e via dei Ramni, era sotto osservazione da tempo e che, «prevedibilmente a primavera», partiranno i lavori di restauro: il progetto «è in corso di elaborazione» e i fondi, due milioni di euro, sono garantiti dalla legge Roma Capitale. Dopo il crollo del 2001, in tutto simile, tra porta San Sebastiano e il Bastione Ardeatino, il Campidoglio stanziò 10 milioni di euro per la ricostruzione di quel tratto, portata a termine l´anno scorso, e di altre parti pericolanti. L´assessore alla Cultura, Silvio Di Francia, assicura che, «pur non potendo disporre di somme così alte per restaurare tutto e subito, in ogni bilancio verrà disposto un finanziamento sostanzioso, e non più episodico, per il consolidamento delle mura».
Dopo il risanamento della torre Asinaria e del tratto a San Giovanni, nuovi cantieri di restauro sono in corso, o stanno per aprire, intorno a Porta Metronia, a Porta Maggiore e lungo il Muro Torto. Gli interventi riguardano un corpo murario disperatamente disomogeneo. Ad andare in polvere è, infatti, sempre la foderatura fatta ai tempi di Sisto V (1585-90): la cortina in blocchetti di tufo, che fa da camicia alla struttura aureliana, fu solo appoggiata, e non assicurata, alla parete antica.
E poi c´è il problema dei privati che ancora occupano tratti della cinta. Secondo La Rocca, il disastro dell´altra sera si deve anche, se non soprattutto, al giardino pensile che i proprietari della settecentesca villa Dominici, già Gentili, hanno creato sul camminamento che porta alle loro abitazioni, impiantandovi nella terra alberi da frutto che hanno favorito le infiltrazioni d´acqua tra muro romano e fodera papalina; «la loro concessione scade nel 2013, certo non gli sarà rinnovata» dice Di Francia. Gli eredi di Dominici - che accusano il Comune di «non avere fatto nulla per la manutenzione esterna, estirpando, ad esempio, le gigantesche piante di capperi» - non sono gli unici inquilini. Nonostante gli sfratti eseguiti, tratti di cinta sono abitate ancora da privati: l´Accademia di Francia a villa Medici e l´ambasciata inglese a Porta Pia, privati al Campo Boario e a via Campania. E nel Bastione San Gallo ha il suo atelier uno scultore.

Roma, trovato il Lupercale la grotta di Romolo e Remo È nelle profondità del Palatino, sotto la casa di Augusto

Roma, trovato il Lupercale la grotta di Romolo e Remo È nelle profondità del Palatino, sotto la casa di Augusto
CARLO ALBERTO BUCCI
MERCOLEDÌ, 21 NOVEMBRE 2007 LA REPUBBLICA

Il ninfeo

In quella grotta secondo la leggenda furono nutriti dalla lupa i figli di Rea Silvia
Una telecamera in una frattura nella collina permette di filmare il luogo di antichissimi riti

L´occhio elettronico è sceso nelle viscere del Palatino alla ricerca di un rimedio per le vestigia del palazzo di Augusto che minacciano di crollare sul colle dei magnifici edifici imperiali. Ma, a sette metri sotto terra, la sonda elettronica ha trovato un grande vuoto. E lì ha toccato forse il cuore della storia di Roma: la grotta dove, vuole la leggenda sulla fondazione della città, la lupa offrì le sue gonfie mammelle alle bocche affamate di Romolo e Remo; la "nursery" che Augusto abbellì solennemente per trasformare quell´antro oscuro a un passo dal Tevere in luogo fondativo dell´impero. Forse proprio attraverso la magnifica tessitura di mosaici, pietre pomici e valve di conchiglie, dominate da un´aquila bianca su fondo azzurro, che decorano la grande volta sepolta appena ritrovata: il "cielo" di un ninfeo che, tra nicchie e pareti curve, arriva a 16 metri di profondità.
Identificato l´anno scorso il punto dove si era quasi certi potesse trovarsi il lupercale - la grotta-santuario dove il 15 febbraio i romani si recavano per festeggiare il miracoloso allattamento dei gemelli - gli archeologi hanno atteso l´estate per infilare nel foro di 30 centimetri di diametro il laser scanner. E ieri hanno esibito le strepitose foto che il computer ha rielaborato - componendo le centinaia di scatti come in un collage tridimensionale - per mostrare ciò che nessun occhio umano ha, in tempi recenti, mai ammirato. «È incredibile pensare» ha detto ieri il ministro per i Beni culturali, Francesco Rutelli, annunciando la scoperta «che possa essere stato finalmente trovato un luogo mitologico che oggi è diventato finalmente reale». E il soprintendente archeologo, Angelo Bottini, ha certificato: «Abbiamo la ragionevole certezza che quella sia la grotta della lupa». Entusiasta per «una delle più grandi scoperte mai fatte» il professor Andrea Carandini. Mentre l´ex soprintendente, Adriano La Regina, afferma: «Non c´è certezza. E poi la grotta dovrebbe trovarsi più a ovest, di fronte ai templi della Magna Mater e della Vittoria».
Il rito dei lupercali, in onore del dio Luperco, mezzo lupo e mezzo capro, prevedeva la corsa di giovani seminudi che, coperti solo con le pelli degli animali sacrificati, colpivano con strisce di pellame le donne del Palatino: per purificarle e per favorire la fecondità. Il centro della festa era proprio la grotta che, narra Dionigi da Alicarnasso, contemporaneo di Augusto, si trovava ai piedi del colle e vicino al Tevere. I motivi che spingono gli archeologi, guidati da Irene Iacopi, che ha lavorato ai sondaggi con l´ingegner Giorgio Croci, ad essere convinti della bontà dell´identificazione, sono di ordine geografico e "politico". Manca è vero la prova di un simbolo: non ci sono lupi, ma un´aquila. Ma corrisponde il luogo, tra il circo Massimo e i piedi del Palatino, tra i resti del tempio di Apollo e la chiesa di Santa Anastasia, con la sua natura geologica di terra argillosa. E poi c´è la vicinanza con il palazzo di Augusto che, nella principesca dimora, aveva voluto inglobare un altro luogo fortemente simbolico: la mitica capanna di Romolo.
Saranno solo gli scavi a confermare l´ipotesi "grotta di Romolo e Remo" e a rintracciare i possibili collegamenti con la casa di Augusto che, finiti i restauri, sta per essere aperta al pubblico. «Le visite partiranno all´inizio del 2008» ha dichiarato il ministro Rutelli, annunciando i «12 milioni di euro che serviranno a salvare il Palatino». Per Walter Veltroni, sindaco di Roma e leader del Pd la cui sede si trova a un passo dal ritrovamento, «la scoperta del Lupercale è solo un tassello dell´articolato programma di restauri e ricerche che ministero e Comune portano avanti per far tornare alla luce gli straordinari tesori che costituiscono le radici della nostra storia».

PALATINO: "Così ho visto i colori della volta"

ROMA - PALATINO: "Così ho visto i colori della volta"
CARLO ALBERTO BUCCI
MERCOLEDÌ, 21 NOVEMBRE 2007, LA REPUBBLICA - Roma

Il professor Croci racconta come è stato scoperto il Lupercale


"La grotta della lupa di Romolo e Remo era lì, a quindici metri sotto terra"
"È quasi certamente il luogo venerato come l´antro dei gemelli"
"In un mese si può riuscire a calare un uomo nella zona del crollo"


«L´ingegner Russo mi chiamò immediatamente. Urlava come un pazzo, ma di felicità: "Corri, l´abbiamo trovata! È piena di mosaici, pietre, colori, è una meraviglia!". Allora ho guardato anche io. Davanti ai miei occhi è apparso uno spettacolo indimenticabile: la grotta della lupa di Romolo e Remo era lì, a quindici metri sotto terra». Il professor Giorgio Croci è l´ingegnere che ha fatto scendere l´occhio elettronico nelle viscere del Palatino: «Il merito della scoperta è degli archeologi, di Irene Iacopi e della sua équipe» precisa lo strutturista della Sapienza chiamato a lavorare per la Soprintendenza archeologica di Roma e ora, dall´Unesco, per una consulenza sulla statica dei templi di Angkor Wat, in Cambogia.
Professore, che ci fa lei in mezzo agli archeologi?
«Lavoriamo insieme al Palatino. E abbiamo iniziato questi sondaggi sotterranei perché, loro, cercano le origini di Roma mentre io una soluzione ai cedimenti della casa di Augusto che si trova più in alto e che abbiamo dovuto puntellare per il pericolo di crolli».
Quanti fori avete fatto prima di arrivare alla scoperta?
«Non molti. Prima abbiamo fatto scendere una "fibra ottica", come quelle che si usano per scandagliare il corpo umano. Ed è saltata fuori la cupola sepolta. Allora abbiamo allargato il buco in terra fino a 30 centimetri di diametro, scavando nella zona della volta crollata. Poi abbiamo fatto scendere il laser scanner. È uno strumento che fino a 10 anni fa non esisteva e che ci ha "costruito" l´immagine del luogo di culto, decorato e valorizzato per volere di Augusto».
Immagine "costruita"? In che senso?
«Perché le centinaia di foto del laser sono state rielaborate al computer che le ha ricomposte, come fosse un collage, dandoci le misure esatte dell´ambiente».
Sicuri che è la grotta del lupercale?
«Gli archeologi dicono che per il 95 per cento è questo il luogo che i romani veneravano come la grotta in cui la lupa allattò i gemelli. È la più grande scoperta avvenuta sul Palatino».
Ha un valore solo storico o anche artistico?
«L´importanza storica è predominante. Ma le cupole e gli archi sono invenzioni degli architetti romani. E qui parliamo di un ambiente con una volta di circa 6 metri e mezzo di diametro, a 8 circa da terra. La sala ottagona della Domus Aurea o il Pantheon vengono molto tempo dopo».
Quale sarà il passaggio attraverso cui scenderete nella grotta?
«L´apertura si può allargare fino a 60 centimetri per calarci un uomo. In un mese si può fare».

A Roma le sorprese non finiscono mai

A Roma le sorprese non finiscono mai
Giulio Scarrone
Avanti 23/11/2007

Molti già la definiscono la scoperta del secolo: Roma nacque lì, o almeno così racconta la leggenda. Amulio, fratello di Ascanio, il fondatore della città di Alba Longa, costrinse la figlia Rea Silvia a diventare vestale e a fare voto di castità. Ma il dio Marte, invaghito della fanciulla, la rese madre di due gemelli, Romolo e Remo. Amulio a quel punto ordinò che venissero uccisi, ma il servo incaricato di eseguire l'assassinio, non trovando il coraggio per obbedire, li abbandonò alla corrente del nume Tevere. La cesta nella quale i gemelli vennero adagiati si arenò sulla riva del fiume, presso la palude del Velabro, più o meno tra i colli Palatino e Campidoglio, vicina al Circo Massimo, dove Romolo e Remo verranno trovati, salvati e allevati dalla famosa lupa. È qui, nella grotta poi chiamata Lupercale, che la lupa sfamò i neonati donando loro le sue mammelle. È l'antro che nei giorni scorsi il ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli ha annunciato essere stato ritrovato: "Ci sono ragionevoli ipotesi che sia il Lupercale, gli archeologi dovranno studiarla, ma è una scoperta mirabolante", ha detto Rutelli. Il mito del Lupercale si perde in secoli antichi e pone le sue radici non solo nella fondazione di Roma, ma in credenze ancestrali che risalgono all'Età del bronzo, legate a divinità pastorali invocate a protezione della fertilità: dalla fondazione di Roma, comunque, il Luperco, antenato di Fauno, mezzo lupo e mezzo capro, fu celebrato dai Romani per diversi secoli con le feste dette Lupercalia. Solo papa Gelasio I riuscì ad abolirlo: era il 496 dopo Cristo, ben dodici secoli dopo la nascita leggendaria della città.
Sulla base di fonti cinquecentesche e degli studi successivi di noti archeologi (uno su tutti Rodolfo Lanciani), due anni fa la soprintendenza per i Beni archeologici di Roma iniziò a monitorare l'area tra il Circo Massimo e la Casa di Augusto, sul Colle Palatino, trivellando
uno spazio mai così attentamente esplorato negli ultimi secoli: lo scorso luglio una sonda calala nella pancia del colle individuò a 16 metri di profondità alcuni locali sconosciuti dei quali un laser scanner mostrò in breve tempo le prime straordinarie immagini, diffuse qualche giorno fa dal ministero. Si nota una volta finemente decorata, con tipi di marmi diversi, anche colorati, mosaici, forse stucchi e conchiglie: gran parte delle pareti e quasi la totalità del locale sono interrate, nascoste dai detriti caduti nel tempo, ma è stata l'aquila bianca al centro della volta, corrispondente con le descrizioni tramandate nei secoli, ad identificare la scoperta con la mitica grotta del Lupercale, certo adattata e abbellita nei secoli dai Romani. "Alla notizia ebbi una reazione di meraviglia - ha raccontato Irene Iacopi, l'archeologa che sta seguendo i lavori -. Già dal Cinquecento abbiamo notizie della presenza di grotte decorate alle pendici del Palatino, che all'epoca erano identificate con il tempio di Nettuno, e che ora le nostre indagini hanno localizzato. Non siamo ancora in grado di conoscere la natura, le caratteristiche e la destinazione del locale, è un'area mai indagata, ma ci sono vari elementi che possono suffragare l'ipotesi di Lanciani che porta al Lupercale. Tra l'altro - ha concluso Iacopi - secondo le più antiche memorie di Roma si trovano tra il Circo Massimo e il Palatino e la scoperta è in stretta vicinanza con la casa di Augusto che sappiamo fosse ricino alla leggendaria casa di Romolo".
Sull'autenticità della scoperta, che gli archeologi dovranno definitivamente attestare studiando negli anni j ritrovamenti, il soprintendente per i Beni archeologici di Roma Angelo Bottini ha però pochi dubbi: "Tutto concorre a pensare che sia il Lupercale, non abbiamo nessun dato contro questa ipotesi". "Sono strabiliato, è una delle più grandi scoperte mai fatte, è stato raggiunto un obiettivo clamoroso", ha commentato invece Andrea Carandini, uno dei maggiori studiosi al mondo di Roma antica: "II fatto che locali al di sotto della Casa di Augusto vengano decorati con un tale lusso - ha aggiunto lo studioso -, ad una profondità così ampia e proprio nel punto che ci indicano le fonti fa proprio ritenere che sia il Lupercale". "Sono secoli - ha detto ancora il ministro - che si cerca il luogo dove la lupa allattò Romolo e Remo: è evidente che la scoperta esige uno scavo complesso di tutta l'area, anche perché sotto le mura della Casa di Augusto c'è una parte scoscesa mai esplorata". Lo scavo, inaugurato a breve, sarà ampio circa 700 mq: i lavori cercheranno innanzitutto di localizzare un possibile ingresso ai locali che, secondo i primi rilievi, sarebbero alti circa 7 metri e mezzo e ampi 6. Gli archeologi non escludono però che le pendici del Colle Palatino e della Casa di Augusto possano regalare altre incredibili scoperte, anche perché, come ha ricordato Rutelli, "le sorprese di Roma non sono finite".


Luci e ombre su una scoperta
È di questi giorni la notizia del ritrovamento, alle falde del Palatino, sotto la Domus di Augusto, del Lupercale, una sorta di grotta nella quale, secondo la leggenda, Romolo e Remo sarebbero stati allattati da una lupa, assurta poi a simbolo della stessa città di Roma. Secondo la leggenda, Romolo e Remo erano figli, di Marte e di Rea Silvia, discendenti di Enea, Dopo la nascita, un servo li sottrasse alla morte (Rea Silvia, in quanto sacerdotessa della Dea Vesta, aveva trasgredito al voto di castità) mettendoli in una cesta che poi abbandonò sulle acque del Tevere. La cesta si arenò in una grotta alla base del Palatino, detta Lupercale perché sacra a Marte e a Fauno Luperco. Qui, secondo appunto la leggenda, una lupa trovò i gemelli e li allattò e qui li trovò il pastore Faustolo che li allevò. Poi, come si sa, fu Romolo, il 21 Aprile 753 a.C, a fondare Roma.
Fin qui, la leggenda. Ma secondo gli studi più moderni sull'argomento, a rinvenire la cesta con Romolo e Remo sulle rive del Tevere, non sarebbe stata la femmina di un lupo, bensì una donna che esercitava la più antica professione del mondo in un vicino "lupanare", cioè in una "casa chiusa" ante litteram dell'antica Roma. E le donne che "esercitavano" in questi luoghi venivano appunto chiamate "lupe". Poi la leggenda, si è impossessata dell'argomento ed è nata così la storia che abbiamo imparato a scuola della lupa capitolina che, in realtà, non sarebbe mai esistita. Naturalmente, lutto ciò nulla toglie al valore archeologico della scoperta fatta in questi giorni sotto la Domus di Augusto, al Palatino,

Dopo il ritrovamento del lupercale - Perché una civiltà si fonda sul mito

Dopo il ritrovamento del lupercale - Perché una civiltà si fonda sul mito
ANDREA CARANDINI
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE 2007, LA REPUBBLICA

spesso si ricorre alla leggenda per conservare nella memoria qualcosa di grande
Il repertorio delle nascite miracolose e dei gesti eroici si ritrovano in molte epoche


Quando penso a miti come quello di Roma riconosco l´infinita potenza della finzione creduta vera e della verità riplasmata, che nulla hanno che fare con la contraffazione, trattandosi di manipolazioni che partono da una realtà per conferirle stabilità, assolutezza e capacità di coinvolgimento.
Non è immaginabile il Cristianesimo fuori dalla credenza in un uomo anche dio, figlio di un padre divino e di una vergine. Per l´uomo secolarizzato e lo storico non è tanto importante che un seme sia stato trasferito, tramite uno spirito, dalla divinità nel seno di Maria, quanto che quella novella abbia trasformato una parte decisiva del mondo rifondandone i valori. Così anche Roma, una città-stato divenuta un impero, non è pensabile senza Romolo, semidivino e divinizzato in Quirino, figlio di Marte e della vergine Rea Silvia – principessa di Alba Longa – tanto che nel passaggio all´impero Augusto ha voluto assimilarsi al fondatore. Infatti "augusto" significa l´inaugurato, il benedetto da Giove, come lo era stato il primo re della città. E come Romolo è figlio di Marte, così Augusto si fa passare per figlio di Apollo. E Augusto costruisce il suo palazzo davanti alla capanna di Romolo e probabilmente sopra al Lupercale, dove il fondatore era stato salvato dall´esposizione, nutrito da antenati in forma di animali - il picchio e la lupa - perché potesse fondare Roma.
È come se per creare qualcosa di grande, duraturo e caro agli dei servisse un essere più che umano, un eroe. Un eroe è definito da una vita composta a patchwork di motivi mitici, come quelle di Teseo, pensando ad Atene, e di Romolo, pensando a Roma. I temi del repertorio eroico sono pochi ma conoscono infinite varianti, come gli schemi delle favole studiati da Propp. Ma il Propp dei miti classici deve ancora venire, anche se ha avuto un precursore in Angelo Brelich, uno dei nostri giganti dimenticati, perché accusato a suo tempo - un tempo stupido - di "irrazionalismo".
La leggenda di Remo e Romolo, che stiamo pubblicando e analizzando (Fondazione Valla, Mondadori 2006 e seguenti) è una stratigrafia plurisecolare, il cui livello più antico risale probabilmente alla seconda metà dell´VIII secolo a. C. o poco dopo. Si tratta di un insieme di motivi mitici e di imprese autentici, confermati da elementi esterni alla tradizione quali la storia delle religioni, la linguistica e l´archeologia. Gli annalisti, antiquari e poeti che hanno tramandato la leggenda sono vissuti tra il II secolo a. C. e Augusto, tardi rispetto alle origini che raccontano, ma i materiali di cui si avvalgono fanno parte della memoria culturale dei Romani, patrimonio di una aristocrazia che sprofonda nel tempo, che sovente non ha molto a che fare con l´epoca in cui quei letterati sono vissuti: più che creatori originali sono stati trasbordatori di ricordi codificati, salvo gli apporti tardi riconoscibili. Del nucleo autentico della leggenda fanno parte alcuni temi mitici - come la nascita e l´allattamento miracolosi, la fondazione della città dal nulla - che sono strutture mentali messe in opera da principio e che non hanno più smesso di operare, ma che non hanno riscontro nella realtà effettuale. Infatti aveva preceduto Roma il Septimontium (secondo gli antiquari) o il "centro proto-urbano" (secondo gli archeologi) e il primo re della città non era stato allattato da una lupa, ma gli era riuscito di farlo credere, che è quanto importa. Al contrario il ruolo di Alba Longa nella leggenda è reale e deve precedere il cuore del VII secolo a. C., quando quella metropoli annalisticamente e archeologicamente scompare e ha inizio la fortuna di Lavinio. Anche le imprese di Romolo sono terrene, realistiche e trovano riscontro nei monumenti. Ad esempio, dal 775-750 a. C. il Palatino - narrato come benedetto e protetto da un murus - appare circondato da mura, le cui porte sono state riproposte fino all´età di Nerone. Analogamente il Santuario principale del Foro, quello di Vesta - ospitante i culti regi e la dimora dei primi re - restituisce dal 750 a. C. circa attestazioni archeologiche clamorose (si veda il mio Roma. Il primo giorno, Laterza, 2007). Quindi è storicamente esistita una cittadella regia sul Palatino e un centro religioso e politico della città tra Foro e Campidoglio, che presuppongono un´autorità centrale potente: quella del rex-augur che nel corso di una vita ha creato la città, per cui si tratta della "fondazione" di uno stato e non di una lenta "formazione".
Per capire le origini delle civiltà bisogna conoscere i miti del giorno d´oggi - come quello dell´eternità della civiltà borghese, descritto da Barthes - e liberarsi dall´assolutismo razionalistico. È questione di entrare nella selva del vero, del finto e del falso, ricordandoci che prima viene il vero e il finto mentre il falso si aggiunge dopo, quando la coscienza mitica collettiva si affievolisce e prevalgono le contraffazioni di gruppo. Pochi sono gli storici che hanno fatto una tale esperienza. Ho voluto invece sottopormi all´iniziazione di una comunità che vive ancora nell´oceano dei miti, quella di Kitawa in Melanesia, studiata da Giancarlo Scoditti (Bollati Boringhieri, 2003).
Studiare Buddha - altra nascita miracolosa - e Romolo - anche lui riformatore di un politeismo più antico - serve a capire che nulla di duraturo e legante si può fondare se non interviene una logica altra rispetto a quella aristotelica, capace di piantare nella coscienza punti fermi in grado di eternizzare eventi fondamentali. Un unico mito divino i primi Romani non hanno potuto cancellare - la riforma romulea è consistita appunto nella "demitizzazione" -, quello di Marte fecondatore di Rea Silvia, perché se Romolo non fosse stato figlio di un dio non avrebbe potuto istituire la città-stato e il suo ordinamento. La Rivoluzione francese è il nostro mito fondatore: Luigi XVI doveva morire per arrivare a una monarchia costituzionale; come Remo è morto per la stessa ragione. E anche i valori della rivoluzione sono stati eternizzati, e infatti perdurano oltre la classe sociale che li ha voluti.
Roma è il luogo dove la memoria si è più conservata - è meglio conosciuta di Atene - per cui costituisce la palestra ideale per cimentarci nell´intendere opere e azioni umane, a partire da quelle sottratte all´usura del tempo, che si radicano nell´arcaismo tramontato e in quello ancora operante in noi. E mentre sopravvivono le lamentele degli studiosi ipercritici, che ripetono che nulla si può sapere della prima Roma, il sottosuolo restituisce flutti di nuove informazioni che risalgono all´età del Bronzo. Ricomporre distinguendo e raccordando questa immensa congerie è il compito di noi archeologi. Può esserci un mestiere più affascinante? Quando stanchi e frustrati dalla vita quotidiana ci soffermiamo sulla "mitistoria", che è poi una storia integralmente intesa, è come se ci rigenerassimo, riprendendo la vita nella sua ampiezza, fatta di libertà ma anche di identità. Se i giovani accorrono all´Auditorium o al Colosseo per ascoltare ricerche storiche in diretta non è forse per arricchire vite banali che vorrebbero la grandezza?

Dalla Roma dei pastori alla patria del diritto

ROMA - Dalla Roma dei pastori alla patria del diritto
ALDO SCHIAVONE
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE 2007, LA REPUBBLICA - Cultura



Alle origini

La Città eterna è quella che più di tutte ha conservato il maggior numero di informazioni sulle proprie origini.

Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria

Un sistema giuridico avanzatissimo che ha ispirato e fondato l´Occidente

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Intorno alle origini di Roma si è svolta una delle più appassionanti discussioni storiografiche dell´intera cultura moderna, in cui si sono riflesse le idee e le tendenze di intere epoche, molto al di là della sola ricerca storica. È da oltre due secoli che ci tormentiamo su quanto accadde esattamente fra decimo e settimo secolo a. C. in quella piccola zona del Lazio non lontana dal mare, individuata da una breve catena di colli sovrastanti un´ansa del Tevere, in mezzo a boschi, paludi, capanne e piccoli campi coltivati, dove la presenza di una minuscola isola rendeva il fiume più facilmente attraversabile, trasformandolo in uno snodo di incontri, di empori, di santuari.
Gli inizi di questo dibattito sono ormai lontani, ma non per questo meno importanti: già l´aspra polemica di Hegel con Niebhur, nei primi decenni dell´Ottocento, investiva in pieno l´arcaicità romana, e anticipava motivi e temi con i quali da allora in poi non abbiamo più smesso di misurarci. E sta di fatto che il Novecento, aperto nel segno di un radicale scetticismo di matrice positivista verso i racconti e le cronologie dalla tradizione antica, a cominciare da quello stesso su Romolo, giudicati come un accumulo di implausibili leggende, e che aveva giustificato una critica delle fonti – di Cicerone, di Livio, di Dionisio, di Plutarco – irrimediabilmente incredula nei confronti di qualunque immagine da loro proposta della nascita di Roma, si è concluso invece nella generale ammissione che quelle narrazioni non ci restituiscono sconclusionate messe in scena, ma sequenze di vicende e di figure da considerare con molta attenzione, se non proprio con tranquilla fiducia. Un capovolgimento che ha implicato un´autentica rivoluzione metodologica, e un cambiamento nell´idea stessa di cosi significhi scrivere storia.
Al centro di questo mutamento di paradigma è stata senza dubbio la nuova archeologia stratigrafica, e, accanto, le nuove ricerche di storia linguistica, religiosa, giuridica, audacemente sospese fra terra, parole e riti, che si sono sforzate di decifrare ogni più piccola traccia, ogni frammento di pietra o di lessico, in una tensione dove la tecnica di scavo e l´analisi indiziaria aspiravano a farsi, da sole, metafora completa del mestiere di storico, proiettate verso epoche sempre più remote, quasi ai confini del tempo profondo.
Roma è la città del Mediterraneo antico che ha conservato nell´età più matura il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. E non a caso. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria; aveva bisogno di un adeguato retroterra mitico e storico per dare profondità di campo alla propria attuale grandezza.
Ma nel contesto culturale della prima Roma, nella sua archeologia mentale potremmo dire, al posto di quella imponente fantasia mitologica e cosmogonica da cui poi sarebbe nato, in Grecia e nella Ionia, il primo autentico sapere speculativo dell´Occidente, ci troviamo invece di fronte a qualcosa di assai diverso. A una trasfigurazione della realtà in cui l´invenzione teologica e l´immaginazione animistica erano totalmente dominate dall´ideazione e dalla messa in scena di una invasiva cascata di rituali, che, appena formulati, acquistavano un´oggettività alienata e irrevocabile, secondo una proiezione propria a molte culture, anche mediterranee: schiacciavano le menti stesse che li avevano elaborati. Il loro rispetto risultava però ampiamente remunerativo: era un´osservanza che dava fiducia ed equilibrio a una comunità circondata di pericoli e di nemici – Latini, Sabini, Etruschi – insieme minacciata e aperta, un crocevia precariamente multietnico, fragile e a rischio; una città nei cui abitanti si agitava un cupo fondo di terrori e di visioni notturne (ancora nelle XII Tavole le pene si inasprivano, se i crimini erano commessi di notte), alimentato non meno da ricordi di violenze, incantesimi, sangue, che da un presente obiettivamente incerto e difficile.
Questa specie di sbilanciamento ritualistico si avvicinava molto a una vera sindrome prescrittiva, del tutto assente nella Grecia arcaica. La realtà veniva sminuzzata con un´analiticità quasi febbrile – secoli dopo ancora ben chiara a Varrone – nel tentativo di proteggere ogni minima funzione della vita quotidiana di quei contadini quasi perennemente in armi, attraverso l´invenzione di un dio a essa preposta, e di un rituale in grado di chetarne la sempre imminente ira. Su questa base si sarebbe poi formata tutta una trama di abitudini cerimoniali, a metà strada fra il divino e l´umano, in cui consiste il primo "ius" – misterioso monosillabo, senza eguali in qualunque altra lingua antica, il cui significato più remoto non corrisponde se non per vaga e retrospettiva assimilazione a ciò che noi (e gli stessi Romani più tardi) avremmo inteso con "diritto": la mano che prende e che dà, il bastone che afferma il potere o il passo indietro che lo cede; la parola che pronuncia il giuramento (ius iurandum, "la formula da formulare"), o crea l´obbligo verso il proprio eguale.
Sul versante della religione, questa complessa armatura formulaica, dissociata sin dall´inizio dalla percezione di qualunque interiorità, avrebbe finito ben presto con il fossilizzarsi, trasformandosi in un corpo morto e freddo, staccato da qualunque forma di sensibilità popolare. Ma la presenza della stessa impronta avrebbe avuto un esito del tutto diverso nelle vicende del ius, come del resto l´avrebbe avuta, in un diverso contesto, nella religione dell´antico Israele, dove possiamo ritrovare una sindrome prescrittiva non lontana da quella romana. In questo senso, le due vicende sono in certo modo speculari. Nel caso di Israele, la forza evolutiva si sarebbe sviluppata tutta dal lato di una religiosità attraversata dalla morale, e una cultura giuridica autonoma non sarebbe mai nata, soffocata dall´invasività della teologia monoteista (il "non avrai altro Dio" di cui parla Jan Assmann), a Roma invece lo sviluppo si sarebbe concentrato per intero dalla parte di un disciplinamento sociale sempre più laico (e che ora possiamo definire propriamente "giuridico") – l´autentico logos della romanità – fino a determinare, nel primo secolo a. C., la svolta della nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma questa straordinaria invenzione, con tutta la potenza del suo formalismo concettuale – un carattere indelebile della nostra civiltà – porta scritto per mille segni sulla propria fronte i tratti della sua genesi più remota.

Il Lupercale. Quante polemiche nel segno dell'archeologia

Il Lupercale. Quante polemiche nel segno dell'archeologia
Marco Guidi
Il Messaggero 23/11/2007

Quale Lupercale? Il Lupercale, stando alle fonti antiche, si trovava sì sul Palatino, ma più a Ovest, nei pressi dei tempi della Magna Mater e della Vittoria. Il ritrovamento potrebbe far parte della Domus Aurea di Nerone». Così, in sintesi, Adriano La Regina, ha demolito l'annuncio del ministro dei Beni culturali, Rutelli e le affermazioni di molti suoi illustri colleghi. Per stabilire chi abbia ragione bisognerà aspettare il tempo in cui gli archeologi, e non una sonda, arriveranno fisicamente nella grotta alle pendici del Palatino e potranno effettuare gli scavi e i rilevamenti del caso. Fino ad allora, è quasi ovvio il dirlo, la polemica resterà aperta.
Sarebbe il caso che la politica non volesse a tutti i costi entrare nella disputa, attendendo il responso degli scienziati. Ma, e anche questo è ovvio, è un pio desiderio. Già si registrano voci, come quella del consigliere comunale di Forza Italia, Fabio De Lillo, che gridano "Basta con l'archeologia spettacolo", qualsiasi cosa voglia significare questa affermazione.
Del resto non è una cosa nuova, molte, moltissime grandi scoperte archeologiche hanno provocato polemiche accesissime tra i dotti. Basterà citarne alcune per tutte. Quando Schliemann trovò Troia, forse anche per il fatto che lui non era altro che un dilettante di successo, ci furono molti professori dell'epoca che affermarono trattarsi di una falsa scoperta. Il fatto che la Troia scavata da Schliemann non fosse quella la cui sorte fu cantata da Omero, ma una città più antica, non è poi molto rilevante. Troia era lì e il geniale dilettante tedesco aveva soltanto sbagliato strato. Le polemiche si riaccesero quando lo stesso Schliemann annunciò al mondo di aver ritrovato a Micene la reggia e la tomba dei mitici re Atreo e Agamennone. Addirittura colpì il fatto che una maschera funebre d'oro, secondo Schliemann, fosse proprio quella che ritraeva le sembianze del re che capeggiò l'impresa di Troia. Ora noi sappiamo oggi che la maschera esposta al Museo Nazionale di Atene non ritrae Agamennone, ma probabilmente un suo antenato, ma la scoperta di Micene rimane nei secoli. Un discorso simile è ancora aperto per quel che riguarda Itaca, la patria di Ulisse. Molti studiosi ritengono che non sia quella l'isola cantata dall'Odissea. E anche lì Schliemann ebbe a che farci, visto che fu lui il primo a esplorare quella terra. Peccato per i dubbiosi e gli increduli che di recente sia stata trovata, proprio a Itaca, una costruzione micenea che pare, a tutti gli effetti, essere una reggia e che è situata proprio dove la mise Omero nell'Odissea. Quindi nulla di nuovo. Il tempo, di solito, è galantuomo e risolve i dubbi e le polemiche. Sarà così anche per il Lupercale, o per una parte del palazzo di Nerone."Basta saper aspettare.

La scoperta La tesi di Patrizio Pensabene «II Lupercale? Così Roma copiò l'Acropoli»

La scoperta La tesi di Patrizio Pensabene «II Lupercale? Così Roma copiò l'Acropoli»
Paolo Brogi
CORRIERE DELLA SERA 25-11-2007


Parla l'archeologo del Palatino
«II progetto adotta una sorta di topografìa religiosa che imita quanto era stato realizzato ad Atene»
C'è una «chiave» per stabilire l'esatta posizione del Lupercale, il nuovo enigma archeologico che appassiona e divide gli studiosi. E l'Acropoli di Atene. Il Palatino è stato ridisegnato sulla strattura dell'Acropoli ateniese. Grotte comprese: là il Paneion, del dio Pan o Fauno, insomma il Luperco che a Roma veneravano nel Lupercale, posto in asse col Partenone e con l'Eretteo. Qua la grotta di Romolo e Remo, il Lupercale, in asse col Tempio della Vittoria e con la Casa di Romolo.
Ne è convinto Patrizio Pensabene, uno dei grandi «scavatori» del Palatino, che proprio lì accanto alla Domus di Augusto ha riportato alla luce, attraverso una lunghissima campagna di scavi durata dieci anni (1985-1995), il Tempio della Vittoria. «La grotta appena rintracciata può essere il Lupercale - spiega l'archeologo della Sapienza - non solo per la conformazione del sito, ma soprattutto per la sua collocazione...».
Bisogna tornare al IV secolo a.C. per seguire la ricostruzione che Pensabene delinea con la sicurezza dello studioso. «Alla fine del IV secolo a.C. - spiega l'archeologo - Roma ad imitazione dell'Acropoli ateniese vara un ambizioso progetto monumentale che collega il nascente Tempio della Vittoria con l'adiacente Casa di Romolo che sorge sulla sommità della Scala Caci, la rampa che dalla sommità del Palatino scende nella valle sottostante».
«Il progetto adotta una sorta di topografia religiosa che imita quanto è stato realizzato ad Atene - aggiunge l'archeologo -. È un triangolo. Col Tempio della Vittoria, cioè il tempio di Atena vincitrice chiamato Partenone, collegato col vicino Eretteo, che celebra la fondazione della città attraverso la violenza di Efeso-Vulcano, il tutto in asse con il Paneion, la grotta alla base dell'Acropoli dedicata a Pan, che per i romani è Fauno e Licaion, insomma la divinità del Lupercale».
«Roma in quel momento -ricorda l'archeologo - deve celebrare la definitiva vittoria nelle guerre sannitiche, che le ha dato il controllo sull'Italia. Nel 294 a.C. nasce dunque il Tempio della Vittoria. Dalle fonti, e in primo luogo da Tito Livio, sappiamo che negli stessi anni della costruzione del tempio fu restaurato anche il Lupercale. Davanti alla grotta, scrive Livio, fu messa la statua in bronzo della lupa».
«Il Tempio della Vittoria sorge in asse con l'adiacente Casa di Romolo - prosegue Pensabene -. Un po' come Partenone ed Eretteo. E allora se il Paneion, ad Atene, conclude questa topografia religiosa, c'è da aspettarsi che il Lupercale lo sia a Roma. Ora, proprio accanto all'attuale ritrovamento, tutta una fetta di pendio ad occidente sotto la Magna Mater è stata sbancata negli anni '30 dall'archeologo sovrintendente Alfonso Bartoli che cercò lì, inutilmente, il Lupercale. Tutto ciò non fa che restringere ulteriormente il campo a vantaggio dell'attuale ubicazione del nuovo sito appena individuato».
«In più i miei scavi per il Tempio della Vittoria hanno dimostrato che c'è una struttura solidale dei blocchi del podio del tempio con quelli della Casa di Romolo - dice l'archeologo -. Inoltre lì sono state rinvenute antefisse con satiri, ovvero luperci, e frammenti del frontone: uno mostra una figura femminile con la brocca che va alla fonte. Come Rea Silvia, madre dei gemelli, che nei sarcofagi è in genere mostrata così perché Marte la sorprese mentre andava a raccogliere l'acqua alla fonte. Insomma, sono molti gli elementi che indicano che il Lupercale è lì vicino...».

I capolavori trafugati tornano in Italia Finiranno in soffitta?

I capolavori trafugati tornano in Italia Finiranno in soffitta?
27/12/2007, IL GIORNALE

Leggenda vuole che l’imperatrice Vibia Sabina, moglie di Adriano, non abbia goduto di buona sorte. Schiva e un po’ triste rispetto agli sfarzi e al suo rango, poco rispettata dal marito al di là degli obblighi di etichetta, era una sorta di «Lady Diana» della romanità. Peggio, all’imperatore non diede figli e ci sono buone possibilità che da quest’ultimo sia stata addirittura avvelenata. Quasi due millenni dopo però, l’estate scorsa, il potere le ha reso un po’ di giustizia riportando una sua preziosa effigie in marmo bianco, trafugata anni fa, nella dimora di Villa Adriana. L’operazione salvataggio reca la firma del ministro Rutelli che ha recuperato dopo lungo contenzioso la splendida statua velata illegittimamente esibita nei saloni del Fine Arts Museum di Boston.

Ma era solo l’inizio. Oltre alla scultura dell’augusta imperatrice, replica romana da originale greco attribuito a Prassitele, gli Usa hanno dovuto restituire un vasto bottino di opere archeologiche finite illegalmente oltreoceano nel recente passato. Così, la scorsa settimana, le sale della Galleria di Papa Alessandro VII al Quirinale hanno potuto ospitare una settantina di capolavori provenienti da prestigiosi musei americani come il Getty di Los Angeles, il Fine Arts di Boston, il Met di New York, il Princeton New Jersey, oltre che da una sequela di gallerie private. «Una giornata meravigliosa» ha commentato il ministro Rutelli di fronte alla sfilata di opere introdotte proprio dalla grande statua di Vibia Sabina. La mostra sui capolavori ritrovati, intitolata Nostoi - Capolavori ritrovati, offre di tutto e di più: vasi firmati da Eufronio, kylix, crateri, anfore di incomparabile bellezza. E poi affreschi strappati da ville vesuviane, statue, coppe, bronzi, un gruppo scultoreo del IV secolo di inestimabile valore raffigurante due grifoni che sbranano una cerva, e ancora un enorme cratere firmato dal pittore pestano Assteas con il ratto d’Europa che, per anni, ha fatto bella mostra di sé nelle sale del Getty Museum di Los Angeles. «Il tombarolo fu pagato con un milione di lire e un maialino», rivela un generale dei carabinieri.
Poco male se la trattativa è invece fallita per il contesissimo bronzo di Lisippo che invece resterà in California: il ministero può comunque dirsi più che soddisfatto.

Quello che avverrà a fine mostra, è tuttora un mistero. Se, infatti, per l’austero busto dell’imperatrice non sembrano esservi dubbi circa una serena vecchiaia nell’Antiquarium del Canopo di Villa Adriana, per tutte le altre opere si spalancano le porte, speriamo non le botole, di quel falansterio che è la custodia dei Beni culturali italiani.

«Torneranno probabilmente ai musei di provenienza», dicono al ministero. Un bene? Forse, ma c’è già chi giura che là, in America, quei capolavori stavano meglio, vezzeggiati e mostrati gratis al pubblico di tutto il mondo. Meglio certo della prospettiva di affollare ulteriormente i polverosi depositi di musei e gallerie civiche, col rischio di finire in balìa del tempo o dei ladri, come il Rembrandt volatilizzatosi dal Castello Ursino di Catania.

D’altro canto, non c’è bisogno di calarsi nei miasmi pubblici del profondo sud per verificare che le opere visibili nei musei italiani sono solo la punta di un iceberg. Sotto, affollati nei depositi interni o esterni, giacciono migliaia di dipinti, sculture, gessi, monete, suppellettili che probabilmente non vedranno mai la luce, tantomeno uno spettatore. «Non sempre si tratta di grandi capolavori - dice Angela Negro, dirigente della Galleria Barberini di Roma - ma i magazzini sono zeppi di autori maggiori. Solo nel nostro museo contiamo 700 opere nei depositi interni e un migliaio in quelli esterni».

Per i musei italiani, la voce «depositi esterni» raggruppa luoghi che spaziano dalle chiese agli uffici pubblici, dai circoli ufficiali ai consolati all’estero. Una stima complessiva di questo tesoro nascosto non è mai stata compiuta dallo Stato. Fermandoci ai casi più rappresentativi, vediamo che la Galleria degli Uffizi, su un totale di 2mila opere esposte, ne conta 2.500 in magazzino, tra cui si annoverano capolavori del Parmigianino, Luca Giordano, Lorenzo Monaco e altri big della classicità.

Le cose non vanno meglio per la Pinacoteca di Brera che, a fronte di 593 dipinti in esposizione, ne annovera 534 nei depositi interni e 619 in quelli esterni. A Milano la situazione potrebbe migliorare se la Pinacoteca realizzasse il sogno della cosiddetta «Grande Brera», previo sfratto dell’attigua e gloriosa Accademia. Si aprirebbero nuovi spazi per i dipinti, sarebbero un po’ meno contenti professori e studenti

E a Napoli? L’antico Museo Archeologico, che vanta una delle più importanti collezioni di arte greco-romana, riesce ad accogliere nelle sue sale 13mila opere tra sculture, gemme, vasi bronzi, terrecotte ecc. Certo un’inezia rispetto agli oltre trecentomila pezzi stipati nei depositi.

Da alcuni anni Ministero e soprintendenze si ingegnano in eventi finalizzati a far godere al pubblico, almeno per una volta nella vita, parte del patrimonio nascosto. È il caso della mostra «Tesori alla luce» svoltasi a maggio nel complesso di San Michele a Roma e che ha fatto riemergere opere sotto chiave in diversi musei italiani, da Tiepolo a Tintoretto, da Tiziano a Poussin. La Galleria Borghese di Roma nel 2005 aprì al pubblico, tra l’entusiasmo generale, i suoi depositi che contenevano 263 dipinti dal Rinascimento al Barocco. La Galleria degli Uffizi ha i giorni scorsi rinnovato l’appuntamento su «I mai visti» che per l’occasione ha rispolverato capolavori di Tiziano, Veronese, Ribera, Tiepolo, oltre a maestri del Seicento fiorentino, dall’Empoli al Bilivert, da Giovanni da San Giovanni al Dandini, da Cecco Bravo al Martinelli, dal Volterrano al Gabbiani. L’anno scorso, sempre nelle sale delle Reali Poste, il pubblico ha potuto ammirare per la prima volta (e forse ultima) una splendida Flagellazione del Botticelli e un Ritratto di Tiziano adulto. Anch’essi, capolavori «Ritornati»; proprio come i Nostoi che possiamo goderci in queste feste natalizie, e che speriamo non ritornino, come gli altri, ben presto in soffitta.

mercoledì 26 dicembre 2007

Cesare e i falsi liberatori

Cesare e i falsi liberatori
Corriere della Sera del 4 gennaio 2007, pag. 1

di Luciano Canfora

Cesare soleva dire che «la sua sopravvivenza fisica non era di suo personale interesse, al contrario interessava soprattutto la Repubblica»; «la Repubblica — precisava —, se a lui fosse accaduto qualcosa, sarebbe precipitata in guerre civili di molto più gravi delle precedenti». Certo, Cesare era ben consapevole della non infrequente presenza dell'attentato nella pratica politica romana.



Tiberio Gracco era stato ucciso in pubblico a sprangate da gruppi di senatori inferociti, e così suo fratello. Eppure Cesare, pur sapendo di essere esposto a rischi nonostante la sua lungimirante clementia, prese una iniziativa clamorosa: congedò la efficientissima scorta di soldati spagnoli che abi­tualmente lo proteggevano. E dopo pochi giorni fu ucciso, a tradimento, in Senato. Ventitré pugna­late di cui una sola mortale.



La sera prima dell'attentato, a cena presso Mar­co Lepido — Cesare era tra gli invitati — qualcu­no portò la conversazione sul tema: qual è il gene­re di morte preferibile? Cesare, interpellato, disse: «Ad ogni altra ne preferisco una rapida e improv­visa». Forse si trattò di un tortuoso avvertimento? La notte fu una notte di incubi, Calpurnia, sua moglie, sognò che il tetto della casa si sollevava e che il marito le veniva assassinato in grembo mentre le porte della stanza si spalancava­no. Cesare sognò di vo­lare in cielo e di stringe­re la mano a Giove. Nel turbamento conseguen­te ad una tale notte sta­va per decidere di rin­viare la seduta in Sena­to. Ma Decimo Giunio Bruto Albino, il congiu­rato che aveva il compito di stargli addosso sin dal mattino e che godeva della totale fiducia della vitti­ma designata, fece leva sul suo ben noto disprezzo per la superstizione. In tono laico-scherzoso co­minciò a farsi beffe degli indovini. Cesare si lasciò convincere. Lungo la strada verso il Senato—rac­conta Plutarco — un insegnante di greco di nome Artemidoro, amico di amici di Marco Giunio Bru­to (il pezzo più prelibato della congiura), gli mise tra mano un libello in cui gli denunciava la congiu­ra, di cui qualcosa era trapelato. Ma Cesare non potè leggerlo. Intanto i congiurati erano già in Senato. Un tale si avvicinò a Casca (uno dei congiu­rati, quello che doveva colpire per primo) e gli sibi­lò: «Tu ci nascondi il segreto, Casca, ma Bruto mi ha rivelato tutto», lasciandolo di sasso. Popilio Lenate si avvicinò a Bruto e a Cassio e disse a brucia­pelo: «Prego perché possiate compiere l'impresa che avete in mente. Vi esorto a far presto. La cosa ormai è risaputa». Quando Cesare giunse, i venti e passa congiurati gli si strinsero intorno fingendo di voler caldeggiare una supplica, ma all'improvvi­so cominciarono a colpire. Avevano paura. Ca­sca, come d'intesa, colpì per primo, ma Cesare, pur ferito di striscio al collo, afferrò il pugnale e lo tenne fermo. Allora entrambi — narra Plutarco —cominciarono a urlare, Cesare in latino: «Scelle­rato Casca, che fai?». E lui, in greco, volgendosi al fratello: «Fratello, aiutami!». Cesare si difese co­me una belva ferita, finché Bruto, che forse era figlio suo e di Servilia, sua amante, lo colpì all'in­guine. Allora si coprì per morire composto, ben sapendo, come lo sapeva anche Socrate morente, che la morte è brutta da vedersi. Era il 15 marzo del 44 a.C. Quasi nessuno degli assassini — nota Svetonio — gli sopravvisse più di tre anni e nessu­no morì nel suo letto. La Curia in cui Cesare era stato ucciso venne murata e le idi di marzo proclamate «giorno del parricidio». Né fu più lecito convocare il Senato in quel gior­no. Anni dopo Augusto preferi­va andare in Senato con la coraz­za sotto la toga, visto che nell'oli­garchia romana poteva sempre allignare il tipo umano del «libe­ratore». A conclusione del suo piccolo libro su Cesare, dettato a Sant'Elena al fido Marchand (gennaio 1819), Napoleone scri­ve: «Immolando Cesare, Bruto ha obbedito ad un pregiudizio educativo che aveva appreso nel­le scuole greche. Lo assimilò a quegli oscuri tiranni delle città greche che, col favore di qualche intrigante, usurpavano il potere. Non volle vedere che l'autori­tà di Cesare era legittima perché necessaria e protettrice, era l'ef­fetto dell'opinione e della volon­tà del popolo». Cesare aveva ri­fiutato la corona, offertagli for­se provocatoriamente da Anto­nio durante i Lupercali pochi giorni prima dell'attentato. Sapeva che le parole più invise, nel linguaggio politico romano, erano rex e regnum. Non avrebbe mai commesso quell'er­rore, non sarebbe mai caduto in una tale trappola. Sapeva però anche che i vecchi ordinamenti di Ro­ma «Città Stato», testa di un impero territoriale immenso, non erano più all'altezza della nuova realtà geografica, amministrativa, politica. «Roma» ormai, anche giuridicamente ed elettoralmente, coincideva con l'Italia intera, e l'Italia era una pic­cola parte, ancorché privilegiata, di un sistema di province e di eserciti oltre che di strutture ammini­strative-imperiali: dalla Spagna al Nordafrica dai Balcani alla Mesopotamia. L'oligarchia dei gran­di latifondisti che costituivano il Senato, organo per eccellenza basato sulla coop­tazione, era inadeguata a regge­re tutto questo, irretita com'era nella propria mentalità di rapi­na. Cesare non seppe né volle creare nuove strutture del pote­re. Ideò invece un compromes­so. Dissotterrò, dilatandone la durata nel tempo fino a farla illi­mitata, la dittatura: una magi­stratura «a tempo» prevista dal­l'ordinamento costituzionale ro­mano. Assunse le legioni — che erano, insieme, un esercito e un ceto (populus del resto in latino vuoi dire entrambe le cose) — co­me sua «base»: soprattutto nella guerra civile, nella quale la legali­tà la calpestarono tutti, cesariani, catoniani e pompeiani. Una volta ottenuta la vittoria nello scontro armato delle fazioni, cer­cò l'accordo con la maggior par­te possibile della vecchia aristo­crazia, ma allargò anche enorme­mente il Senato, portandolo a 900 membri. Sapeva — come ben scrive il Bonaparte — che l'aristocrazia si ricostituisce sempre e comunque: «Eliminatela nella nobiltà ed eccola rispuntare nel­le casate più ricche del Terzo Stato. Eliminatela anche qui ed essa sussiste nell'aristocrazia opera­ia». È contro questo compromesso che si mosse la minoranza fanatica dei congiurati. Narra Plutarco che, durante il suo primo consolato (59 a.G), Cesare, di fronte all'ostilità preconcetta del Sena­to verso le sue leggi agrarie, aveva gridato in faccia al Senato «che lui controvoglia si faceva trascina­re dalla parte del popolo, e ne assecondava le spin­te: per colpa della tracotanza e della durezza op­pressiva del Senato».



Uccidendolo, i congiurati non si avvidero di aver eliminato il più lucido e lungimirante esponente del loro ceto. A Roma essi persero il potere in pochi giorni, in poche ore. Si rifugiarono perciò a organizzare la guerra civile in provincia facendo leva sulle loro clientele provinciali, con le lusinghe o con la violenza. E così risospinsero la repubblica per anni nella guerra civile. Si proclamarono «libe­ratori» e tali sono rimasti nell'immaginario di mol­ti, grazie essenzialmente alla complice ignoranza dei posteri.



Il manuale di storia in voga in Francia, sotto il Terrore, scritto dal cittadino Bulard, della «Section Brutus», incitava gli scolari a farsi affrettanti Bruto e altrettanti Cassio: «Soyez tous autant de Brutus et de Cassius», ogni volta che sulla scena apparisse un ambizioso emulo di Cesare.

ROMA Splendore e decadenza dell' età cristiana

Corriere dellsa sera, venerdi , 22 dicembre 2000

ROMA Splendore e decadenza dell' età cristiana

E il Vaticano riapre al pubblico la tomba di Pietro
Carandini Andrea


ARCHEOLOGIA
Si apre oggi al Palazzo delle esposizioni la mostra sui secoli in cui entra in crisi il modello imperiale e torna in auge la vecchia aristocrazia repubblicana ROMA Splendore e decadenza dell' età cristiana di ANDREA CARANDINI Si è aperta a Roma nel Palazzo delle Esposizioni la mostra voluta dal Comune dal titolo Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, che conclude con artistica magnificenza il discorso fra mito e storia affrontato con la mostra sulla Fondazione della cit tà aperta alle Terme di Diocleziano, concludendo nel modo migliore le manifestazioni culturali per il giubileo. E' la prima volta che il pubblico potrà avvicinarsi a quell' arte tardo-romana - III/IV e VI secolo d. C. - che gli austriaci Wic khoff e Riegl ci hanno da un secolo insegnato a valutare. Per capire cosa succede di Roma in questi secoli, quando il centro urbano diventa quel misto di rovine e abitato povero che vediamo nei presepi storici servirebbe un' estensione di questa che non si è potuta purtroppo realizzare (si veda sull' argomento il Museo della Crypta Balbi in via delle Botteghe Oscure). Basti qui ricordare che la Roma di oggi riflette la Roma tardo-antica più di quella del primo e medio Impero e che le cerimonie mediatich e della Chiesa cattolica riflettono ancora quelle imperiali romane e rappresentano la maggiore attrattiva estetico-mondana della bimillenaria istituzione. Già con la fondazione di Costantinopoli i palazzi e le ville imperiali di Roma vengono abbandon ati dai padroni del mondo, arroccati nelle nuove capitali, per cui l' urbe sembra tornare al tempo della Repubblica, quando si esibivano scatenati i grandi aristocratici. Tutto decade in questa tarda Roma, salvo la Chiesa che, tramite lo Stato, va ri plasmando epicentri e forma della città e poche grandi famiglie nobili che si contendono cariche nelle province e giochi nel Colosseo. E' la festa finale, prima che il fango penetri per strade, piazze e case, inghiottendole e ruralizzandole. Non rest eranno che basiliche, villaggetti e vie che attraversano sbieche le costruzioni dei giganti in rovina. Potremmo a questo punto domandarci del massimo centro urbano dell' antichità: ma è ancora una città? La vita di questi aristocratici, tratteggiata da Ammiano Marcellino, non è facilmente ricostruibile a Roma. Abbiamo singoli lacerti di domus o singoli capolavori sopravvissuti. Se volessimo farci un' idea generale dei modi in cui vivevano quei nobili bisogna scendere in Sicilia, a Piazza Armerin a, dove uno di quei signori, governatore dell' isola, si era costruito una residenza chiamando mosaicisti dalla Tunisia - i più capaci del mondo romano - a dipingere sui pavimenti le proprie manie cerimoniali, ludiche e intellettuali. Ottenere tale f asto figurativo a Roma era difficile. L' Italia versava da oltre un secolo in una grave crisi produttiva, dopo essere stata il centro economico dell' Impero, e il normale artigianato legato all' edilizia e alla sua decorazione era decaduto. Lo stesso arco di Costantino, commissionato dal Senato, è fatto di pietre e rilievi recuperati e in malo modo combinati. La capacità artistica di tradizione ellenistico-romana si era rifugiata nel lusso estremo, per cui le belle forme possono ritrovarsi solam ente in materiali costosissimi quali l' avorio, l' argento, il porfido o nelle pareti incrostate di marmi venuti da tutto il mondo. Bene hanno fatto Eugenio La Rocca e Serena Enzoli a esibire nel cuore dell' esposizione l' oggetto architettonico e fi gurato che, sebbene quasi del tutto ignoto, è l' opera che meglio ci fa sentire uomini di quel tempo. Si tratta del rivestimento marmoreo della sala di una villa suburbana di Ostia, finalmente rimontato e dispiegato nella sua interezza. Si resta a fi ato sospeso e nell' emozione si rischia di dimenticare le meraviglie profuse nelle altre sale. Ostia era attraversata, per lungo, dal decumano e nel punto in cui, poco dopo Porta Marina, esso raggiunge il mare, lì sulla banchina venne costruita alla fine del IV secolo d. C. una villa con vari saloni a pianterreno, aperti direttamente sulla spiaggia, e con altre stanze al primo piano. Una di queste sale conteneva migliaia di frammenti di marmi policromi crollati, che un solo uomo, Luigi Bracale, è riuscito miracolosamente a ricomporre tra il 1959 e il 1966 e una sola donna a disegnare: Maria Ricciardi. Un pannello ricomposto è stato esposto nel Museo di Ostia ma gli altri sono rimasti per una generazione nei "Grottoni" della Soprintendenza e sono ora per la prima volta esposti al pubblico, grazie al soprintendente Anna Gallina. Le parti basse della decorazione mancano, ma quelle alte e il pavimento fanno girare la testa per i motivi geometrici, le lesene, i capitelli, le volute popolate da chiocciole, farfalle e uccellini e le scene di caccia nell' anfiteatro, con leoni e tigri che atterrano gazzelle. Nell' esedra in fondo alla stanza la vile tecnica muraria in opera reticolata e laterizia viene replicata con marmi policromi, massi ma stravaganza di cui non si è trovata la ragione. Non si tratta di mosaici, ma di opus sectile. La figura abbozzata su di un cartone veniva divisa in tante parti - un occhio, un polpastrello, un' unghia di un leone - e per ciascuna di queste si rita gliava un corrispettivo in un marmo del colore più adatto, come in un puzzle. Nella parete di destra, sopra una porta, appare la testa nimbata di un uomo con capelli lunghi, barba e mano nel gesto di adlocutio. Più in basso figura il capo di un giova ne. Chiunque, a prima vista, riconoscerebbe nella figura adulta il Cristo, e così la interpretò Giovanni Becatti (Scavi di Ostia, 1969). Ma Paul Zanker (La maschera di Socrate, 1995) vi ravvisa un filosofo pagano e nel giovane un allievo. I filosofi erano allora aristocratici eleganti, sacerdoti sapienti con occhi volti al cielo, manifestazioni a tal punto del divino da «emanare luce»(come leggiamo nelle fonti d' epoca). La stessa difficoltà di interpretare queste immagini ci riporta alla tarda romanità, ambiguamente divisa e confusa fra valori pagani e cristiani, consentendoci quasi di toccarla. Si tratta di un allievo e di un filosofo pagano o di un giovane neo-converso e del Cristo sentito come un sapiente pagano? Il mistero non verrà ri solto, ma pagana o cristiana che sia, resta questa società di spettacoli anfiteatrali e circensi e di spiritualità filosofico-religiosa, di lusso e di elemosina, che rappresenta per noi la fine dell' antichità. La mostra «Aurea Roma» è aperta al pubb lico da oggi al Palazzo delle Esposizioni e chiude il 20 aprile. Per informazioni tel. 06/4745903 E il Vaticano riapre al pubblico la tomba di Pietro La mostra sulla Roma cristiana è stata preceduta dal restauro della necropoli vaticana, aperta ora a l pubblico, su prenotazione. Roma antica è stata fondata quattro volte: da Romolo (750 a.C. circa) sul Palatino; da Servio Tullio (550 a. C circa) probabilmente nel Foro; da Augusto, di nuovo sul Palatino; infine un secolo dopo dai cristiani di Roma che seppellirono Pietro in un luogo che coinciderà con i diversi altari delle basiliche di San Pietro, a partire da quella di Costantino. Sul lato sinistro di San Pietro era il Circo di Nerone. Qui dal 64 d. C. (data del grande incendio) i cristiani, accusati di superstizione illecita, vennero sbranati e crocifissi, e a questi «giochi» partecipò Nerone stesso (Tacito). Pietro sarebbe stato crocifisso nel 67 d. C.(Girolamo) e il suo corpo seppellito lungo la strada che fiancheggiava il circo, ora sotto l' asse della chiesa. Alla fine del II secolo d. C. i cristiani monumentalizzarono la povera fossa erigendo un muro con nicchia e colonnine: è il Trofeo di Pietro (Eusebio). Un frammento caduto dell' intonaco di questo muro reca un graffito in greco: «Petros eni» (Pietro è qui). Queste testimonianze non sono mai state sottoposte a verifica da parte di studiosi laici, ed i tempi sono maturi per farla. Chi visita la necropoli, inoltre, non raggiunge il luogo della tomba, perché l' intrico d ei muri è considerevole, per cui non può rendersi conto della scoperta principale. Sembrano dunque indispensabili, dopo una verifica, almeno quattro plastici - quello esposto è insufficiente - capaci di riprodurre le trasformazioni di questo luogo.

Chi ha paura delle sacre rovine?

Corriere della Sera, lunedi , 13 marzo 2000

Chi ha paura delle sacre rovine?
Carandini Andrea
Riflessioni, esperienze, bilanci di un uomo che ha dedicato la vita alla ricerca del passato I monumenti devono essere visitati, compresi e usati. Ricavandone, magari, anch e un utile economico CARANDINI Chi ha paura delle sacre rovine?
Pubblichiamo in anteprima alcuni brani del libro "Giornale di scavo" di Andrea Carandini, in uscita da Einaudi (pagg.220, lire 30.000) Federico Zeri + morto Zeri, l' ultimo dei maestri. Il suo essere stato un maestro sarebbe dipeso da una fusione rara tra carattere e conoscenza. Personalita' ed esperienza nell' arte Zeri ne aveva, specie nel suo campo - piu' erudito e geniale connaisseur che storico intelligente - ma nel suo caso tr ovavo proprio la fusione con il resto disturbante. Preferivo la raffinatezza snob dell' americano europeizzato Bernard Berenson, che aveva come modello il gentleman edoardiano (si occupava come Zeri di commercio dell' arte, ma lui era straniero). La sua cultura non era di tipo letterario, e questo si avvertiva in ogni scritto. Zeri e' stato una mistura teatrale di romanaccio triviale e di cosmopolita, con forte debolezza per mercato e denaro. Il suo cosmopolitismo era fatto di ricchi commerciant i, di dive decadute e di principesse della nobilta' nera. I suoi rendiconti goliardico - mondani erano da rivista scandalistica. Mandava in visibilio i giornalisti per la sua abilita' nel camuffarsi e nel colpire, per la presenza scenica dell' affabu latore levantino che sapeva trattare con le masse. (...). Zeri non era sempre cattivo (...). Ma non sapeva amare, forse neppure l' arte, per nevrosi e cinismo. La sua era una filologia che rifuggiva dall' intuizione poetica, dal culto della qualita' , e questo aspetto non mi dispiaceva. Detestava noi Carandini, proprio in quanto famiglia. Era arrivato al punto di ipotizzare che avessi appoggiato il progetto di scavo ai Fori Imperiali perche' avrei avuto proprieta' da valorizzare nella Suburra... Lui amava il popolino e l' aristocrazia, non la borghesia. Altre sue bestie nere erano i puri, come Cederna e La Regina. Fu un proto - Sgarbi, fatte le differenze (...). Fu fondatore e consigliere di quel redditizio posticino che e' il Getty, ma sep pe uscirne al momento giusto, facendo lo scorbutico e rifiutando un falso colossale che la bovina improntitudine di quel museo volle invece acquisire come al solito con copioso esborso. Inaugurava in questo modo la stagione finale della sua vita, rip iegata sull' Italia, segnata forse da un senso di colpa, nella quale tento' di passare per moralista, dopo tanta avventura e disinvoltura, in cui aveva messo a frutto il grande occhio. In questo era un Tartufo, di cui aveva anche l' aspetto (...). Du reranno, oltre l' opera, alcune fotografie di lui, davvero straordinarie, e il testamento, poco italiano (americano nel senso migliore), che dona i beni alla comunita' . Il passato come perversione La ricerca del passato e l' amore delle cose antiche e' in ogni uomo. Per tutti il tempo nobilita e poetizza quello che un giorno era comune. Piu' la cosa si allontana piu' diventa indecifrabile e affascinante. Di qui l' attrazione per l' arcaismo. Ma queste qualita' speciali del passato altro non son o che quelle che abbiamo attribuite da bambini ai genitori e al piccolo universo che ci avvolgeva. Vorremmo aver saputo tutto di loro e cio' mai accadde, per il nostro essere figli, uomini di una generazione successiva. Cosi' noi archeologi scaviamo nei secoli alla ricerca di uno stesso arcano, presi dallo stesso complesso, dal medesimo mito. E come nella vita personale rimanere fissati a quello stadio infantile significa restare attaccati alla sofferenza, legata per definizione all' irraggiungi bilita' , fino alla perdita di ogni propria forza, cosi' perdersi nei secoli travolti da una cieca passione, senza null' altro di vitale indosso, e' un altro modo di morir vivendo. Fedeli all' origine e fedeli all' oggi, ecco una maledizione. Per que sto bisogna che l' archeologo trovi continuamente correttivi, nel rimanente della cultura, nella vita pratica ed emotiva, compensazioni a quel cadere gaudioso nel pozzo del passato, se egli vuole essere oltre che un dotto un uomo. Beni culturali e qu attrini Vi e' chi crede che i monumenti antichi debbano essere sacri, gratuiti e che il loro buon effetto economico debba essere solamente indiretto: quello di portare valuta nel Paese. + una opinione rispettabile, ma io ragiono diversamente. Per me i monumenti sono documenti storici, e in quanto tali organi di una memoria che andrebbe laicamente intesa. In Israele le tombe sono sacre, e questo non mi piace, perche' si tratta di un sacro che fa tutt' uno col profano, di un sacro di tipo fondamen talista. + bene che alcuni complessi monumentali siano gratuiti, specie quando servono di attraversamento o di svago in un determinato ambito cittadino, ma altri complessi possono essere a pagamento (come il Palatino e i "Mercati" di Traiano rispetto ai Fori Imperiali a Roma). Penso che i monumenti debbano servire principalmente per essere visitati e pensati, ma non capisco perche' non possano essere anche usati, con misura, anche per altri scopi altamente culturali, da valutarsi di volta in vol ta, per ricavarne anche un utile economico da reinvestire nei beni stessi. Se una sfilata di alta moda e' tollerabile in una sala del ' 500 o in una piazza romana non riesco a intendere il veto assoluto per i monumenti antichi ad altro che non sia la mera contemplazione, pur che l' uso sia congruo e non porti al degrado. Certo la demonizzazione del mercato e i secchi no sono modi inequivocabili di risolvere il problema, ma la vita e' bella proprio perche' non e' cosi' semplice e incontrovertibil e. Credo che non vi sia nulla di male se un complesso monumentale arriva a produrre esso stesso denaro utile per la propria conoscenza e valorizzazione o per la conoscenza e la volorizzazione di altri complessi vicini. Cio' sta avvenendo persino a Po mpei e accade anche in tante altre parti d' Europa. L' idea che il denaro comunque e sempre insozzi la santita' delle rovine, che le sponsorizzazioni siano immorali o poco dignitose non mi sembra giusta. Aveva un senso quando si valutava, errando, ch e il privato e il mercato equivalevano al male e lo Stato al bene. Solo se i beni culturali vengono valorizzati e messi in comunicazione con la societa' , come il ricordo e' a contatto con le altre funzioni della nostra mente, possiamo sperare di far li intendere e tramandarli. Piu' che essere conservati, anche se non capiti, per le generazioni future, essi vanno tutelati e capiti da tutte le generazioni, a partire da quella attuale. Come che sia, il regolamento della legge di tutela, mai redatto , dovrebbe dare quella certezza del diritto che manca quando una legge generale come la 1089 viene applicata diversamente a seconda delle interpretazioni piu' o meno rigoriste dei funzionari. Ruderi ricostruiti Bisognerebbe non ricostruire i ruderi m a trarre da essi informazioni per giungere a ricostruzioni grafiche, tridimensionali (plastici) o al computer, di cui siamo straordinariamente carenti. La rovina ha una bellezza in se' - a volte documentata letterariamente e in disegni, pitture e sta mpe - ed essa e' anche il documento dell' obliterazione di un monumento. Le ricostruzioni seguono ipotesi che possono rivelarsi con il tempo caduche, per cui si dovrebbe montare, smontare e rimontare di continuo i ruderi a seconda del mutare delle no stre idee, con l' esito di tartassarli e sfasciarli definitivamente, oppure dovremmo contentarci per sempre di una ricostruzione rivelatasi errata ma ormai "storicizzata". Dove si e' proceduto a restituzioni vistose di ruderi - come nella biblioteca di Efeso o nel ginnasio di Sardi - i restauri finiscono per spiccare in modo incongruo nel paesaggio urbano fatto generalmente di rovine a terra, creando un protagonismo del singolo monumento restaurato che in antico non esisteva (...). Walter Veltro ni Venni nominato nel Comitato del settore archeologico per i Beni archeologici da Alberto Ronchey, con il quale ho collaborato in modo molto soddisfacente. Lui sapeva del mio mondo trascorso, vi era emotivamente legato. Giunto Veltroni ho cercato di comunicare con lui o con i suoi collaboratori, ma non ci sono riuscito. Vicino alla scadenza del mandato gli ho detto che ove fosse stata sua intenzione rinominarmi io non lo avrei gradito permanendo quella situazione. Che senso ha fare il consiglie re di un ministro che non si vede? Veltroni mi ha preso in parola e mi ha sostituito. Ecco il nuovo stile, "very effective". A me piace credere che il mio posto sia stato occupato da Giulia Maria Crespi. Veltroni ha il merito di aver riportato i beni culturali alla ribalta, di aver aperto musei e scavi, di aver prolungato gli orari dei musei maggiori, di aver trovato mezzi, di aver snellito il suo ministero, caricandolo tuttavia di troppe incombenze, perfino il calcio! + stato un ronzare concita to senza che del fiorire si sia toccato il cuore.
di ANDREA CARANDINI

martedì 25 dicembre 2007

Mitra

Mitra

Da Karlheinz Deschner - Prima che il gallo canti - Massari 1998

Mitra, il dio della Luce celeste, è una personificazione del Sole. Il suo culto, originario della Persia e dell'India, nel III secolo a.c. era già diffuso in Egitto. Quasi contemporaneamente al Cristianesimo, penetrò poi nell'Impero Romano, facendo numerosi proseliti con grande rapidità soprattutto fra i soldati, i mercanti e gli schiavi, estendendosi in Nordafrica, in Spagna, in Gallia, in Germania e persino in Britannia.

Il punto di irraggiamento della religione di Mitra fu la Cilicia, patria di Paolo, dov'era penetrata quasi cent'anni prima di lui. Gli studiosi hanno accertato tutta una serie di corrispondenze fra la sua predicazione e i culti mitraici.

Mitra discese dal cielo e si racconta che alla sua nascita fu adorato dai pastori, che gli recarono in dono le primizie dei greggi e dei frutti della terra. In seguito ascese in cielo, venne posto sul trono accanto al dio del Sole, cioè, divenne partecipe della sua onnipotenza, e infine fu parte di una Trinità. Si credeva, inoltre, che un giorno sarebbe tornato a resuscitare e a giudicare i morti.

Mitra era il demiurgo fra cielo e terra, fra dio e l'umanità: era l'Uomo-dio, il Redentore del mondo e il Salvatore. Era anche «colui che nacque dalla pietra», come Cristo, a sua volta definito «la Pietra», concomitanza già notata dai più antichi apologeti della Chiesa, e come Pietro, sempre accostato all'immagine del gallo e delle chiavi, entrambi simboli del dio del Sole.

Il giorno consacrato al dio del Sole era il dies solis, celebrato in modo particolare nel culto di Mitra come primo giorno della settimana, e in seguito definito «il giorno del Signore» (dies dominica) dai cristiani, per i quali in origine tutti i giorni della settimana erano egualmente dedicati al Signore. Intorno alla metà del III secolo, Origene insisteva sul fatto che per il perfetto cristiano tutti i giorni sarebbero dovuti essere giorni del Signore. E ancora nel IV secolo, nel Cristianesimo la domenica non conosceva la cessazione dell'attività lavorativa, nemmeno nei monasteri di più stretta osservanza: la Domenica fu introdotta da Costantino con una legge del 321.

L'origine del Natale

Il giorno della nascita di Mitra, il dies natalis Solis, era il 25 dicembre, che, come tutti sanno, è oggi il giorno della nascita del Cristo; ma nella cristianità primitiva si celebrava solo una festa, la Pasqua, e fino al IV secolo la Pasqua e la Pentecoste furono le uniche festività ufficiali della Chiesa. A quanto pare, allora si ricordava ancora che Gesù non aveva mai predicato l'introduzione di feste!

Per molto tempo la nascita del Cristo non fu celebrata, e in seguito, per altro, venne determinata in modo estremamente diverso, dato che non era certa neppure la determinazione dell'anno della nascita, per non parlare poi della storicità dell'evento. Intorno al 200, secondo quanto sappiamo da Clemente Alessandrino, per alcuni era il 19 di aprile, per altri il 20 di Maggio, mentre lo stesso Clemente credeva che la data esatta fosse il 17 Novembre.

Il Natale sorse in Egitto nel II secolo, festeggiato il 6 di gennaio, giorno della nascita del dio Eone ovvero Osiride. Ma fu solo a partire dal 353 che la Chiesa indicò il 25 dicembre quale data della nascita del Cristo, quel 25 di dicembre, nel quale ricorreva la festività di Mitra, l'invitto dio del Sole, e tale scelta si proponeva soltanto di cancellare dalla coscienza popolare la ricorrenza pagana. L'Avvento, festa preliminare alla celebrazione del Natale, venne introdotto addirittura solo nel VI secolo.

La nuova solennità ecclesiastica divenne ben presto assai popolare proprio perché altro non era se non la trasformazione e l'adeguamento della festa pagana del solstizio, della festività dell'Eone, cioè della mitica rappresentazione della nascita del nuovo sole. In tale circostanza, nella notte fra il 24 e il 25 dicembre gli iniziati si raccoglievano in un adyton sotterraneo, per compiere i riti iniziatici intorno alla mezzanotte. All'alba i fedeli lasciavano in processione il luogo sacro, portando con sé la statuetta d'un bambino, simbolo del figlio del dio del Sole appena nato dalla Vergine, la Dea Caelestis, e non appena sorgeva il sole recitavano in coro la formula liturgica:

«La Vergine ha partorito, la luce cresce».

E' stata tramandata anche la formula seguente: «Il Grande Re, il Benefattore Osiride è nato». Pare anche che alla nascita del dio risuonasse dal cielo una voce: «Il Signore dell'universo è venuto alla luce». In Luca l'Angelo dice: «Oggi è nato per voi il Redentore» (Lc. 1, 11).

Il racconto cristiano del Natale è talmente popolare, che molti credono ch'esso si trovi in tutti i Vangeli, mentre, al contrario, è presente soltanto in Luca, il quale ha rielaborato una tradizione veterotestamentaria e più ancora un patrimonio culturale pagano. Gli studi teologici anche di recente hanno sottolineato la profonda influenza pagana sulla narrazione di Luca:

«1) La descrizione, così piena di sentimentalismo, della madre errante, che non trova un luogo dove partorire la propria creatura. Qualsiasi lettore greco non poteva non ricorrere col pensiero alla madre di Apollo, che non riesce a trovare un luogo per partorire, e che i poeti descrivono in modo analogo. 2) Come in Callimaco il figlio di Zeus viene avvolto in fasce e Dioniso bambino giace dentro un crivello, così in Luca il Gesù bambino giace dentro una mangiatoia, avvolto in fasce. 3) Il racconto bucolico dei pastori viene riferito pressoché identico a proposito della nascita di Ciro e di Romolo, nonché nelle storie dell'infanzia di Mitra; esso non ha nulla a che fare con i racconti analoghi del Vecchio Testamento, dove manca proprio l'elemento essenziale, cioè l'omaggio alla divina creatura. 4) La luce nella notte è parte della natura dei Misteri: "Nella notte io vidi risplendere il Sole in luce accecante", così suona il racconto della cerimonia iniziatica dei Misteri di Iside. 5) Dalle celebrazioni misteriche proviene il grido: "Oggi vi è nato il Salvatore". L'esclamazione di giubilo degli Ierofanti in Eleusi suona: "La Signora ha generato un sacro fanciullo"; e nelle feste ellenistiche dell'Eone, influenzate da questa tradizione, risuonava il grido: "In quest'ora, oggi, la Vergine ha partorito l'Eone" e "La Vergine ha partorito, la Luce cresce". Per Osiride il grido suona: "Il Signore di tutte le cose viene alla luce ... un Grande Re e Benefattore, Osiride, è nato" e nel culto dei re: "Vi è nato un Re ... e lo ha chiamato Carilao, perché tutti divennero felicissimi". 6) Dalla pietas verso i sovrani derivano le locuzioni "annunciare una grande gioia", "Salvatore", "a tutto il popolo". 7) L'annuncio d'una grande gioia in occasione della nascita di un redentore è motivo tipico della storia delle religioni, del quale non sappiamo con certezza se abbia le proprie radici nel sorriso del cielo e del mondo quando nacque Buddha oppure nel giubilo cosmico per Zarathustra o se i due motivi videro la luce solo nell'Ellenismo. Forse possiamo presumere in Luca le medesime fonti ellenistiche della IV Ecloga di Virgilio. 8) Le schiere celesti in Luca derivano da concezioni veterotestamentarie, ma ci riportano alla memoria anche i Cureti vestiti da soldati e i Coribanti intorno alla culla di Zeus, o le schiere che circondano il fanciullo Dioniso».

Le concezioni intorno alla nascita dell'Eone quali ricorrono nei Vangeli erano, come si vede, ben note al mondo precristiano; lo attestano, fra l'altro, anche gli eloquenti Dialoghi religiosi alla corte dei Sassanidi:

«Signora - disse una voce - il Grande Helios mi ha a te inviato come messaggero della generazione che in te si compirà ... Diventerai madre di un bimbo, il cui nome è "Principio e Fine"».

Anche la celeberrima Ecloga Quarta di Virgilio, composta intorno al 40 a.c., preannuncia la nascita di un bambino inviato dal cielo sulla terra, per portare la pace tanto desiderata: «Il tempo è ormai giunto - si legge nella poesia - già regna Apollo ... Verrà generato un figlio dell'altissimo Signore». Analogamente Paolo scrive: «E quando fu giunta la pienezza dei tempi, Dio inviò suo figlio» (Gal. 4, 4). Anche la concezione prediletta da Paolo di «una nuova creazione», «di una nuova umanità» (2 Cor. 5, 17), si può cogliere nel componimento virgiliano espressa in modi assai simili: nel verso 7 vi si parla della nova progenies, cioè di una nuova schiatta. E anche Marco dice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc. 1,15).

Il culto e la sua stona

La religione di Mitra era seguita da una comunità suddivisa in modo strettamente gerarchico, le cui propaggini si estendevano a tutto l'Impero Romano. Il capo si chiamava Pater patrum (padre dei padri), come il Sommo Sacerdote del culto di Attis e poi il Papa romano. I Sacerdoti portavano spesso il titolo di «Padri» e i fedeli si chiamavano «Fratelli», definizione usuale anche presso altre forme di culto, come, ad esempio, in quello di Juppiter Dolichenus, i cui componenti si chiamavano fratres carissimi assai prima che i cristiani si servissero della medesima terminologia.

Il culto mitraico conosceva sette sacramenti, come ancor oggi la Chiesa cattolica, nella quale, a dire il vero, tale numero ha conosciuto numerose oscillazioni lungo i secoli. Attestati per la prima volta nel XII secolo presso Pietro Lombardo, i 7 sacramenti furono elevati a dogma nel 1439 , durante il Concilio di Ferrara-Firenze.

Il culto di Mitra possedeva un Battesimo, una Cresima e una Comunione consistente in pane e acqua o in un miscuglio d'acqua e di vino, celebrata, come nel Cristianesimo, in memoria dell'ultima cena del Maestro coi suoi discepoli; le ostie erano poi contrassegnate da una croce.

Ai Sacerdoti spettava soprattutto la dispensazione dei Sacramenti e la celebrazione del servizio divino: la messa veniva celebrata quotidianamente, ma la più importante era quella domenicale (nel dies solis): l'officiante pronunciava le sacre formule sul pane e sul vino, nei momenti particolarmente solenni si faceva squillare una campanella e in generale risuonavano lunghi canti accompagnati dalla musica. Sugli altari dei templi di Mitra era accesa una sorta di Luce Perenne. Le iniziazioni avevano luogo in primavera, come molti Battesimi nella Chiesa antica, e in particolari festività culturali i peccati venivano purificati col sangue. I Padri della Chiesa videro in codeste analogie nient'altro che invenzioni diaboliche.

I seguaci di Mitra si richiamavano a una Rivelazione, ponevano un diluvio all'inizio della storia e un giudizio universale alla fine; non solo credevano nell'immortalità dell'anima, ma anche nella resurrezione della carne.

Le istanze morali del culto di Mitra, il «Dio Giusto» e il «Dio Santo», non avevano nulla da invidiare a quelle dei cristiani: come i cristiani dovevano imitare il modello del loro padre celeste, allo stesso modo il fedele del vero, giusto e santo Mitra tenuto a condurre una vita attivamente governata dalla morale. La sua religione definita da precisi «comandamenti», perseguiva un rigoroso ideale di purezza; la castità e la temperanza erano annoverate fra le virtù più alte, e anche l'ascesi vi svolgeva un ruolo non secondario.

L'evoluzione delle due religioni presenta non poche analogie: il Mitraicismo, come il Cristianesimo, esercitò dapprima una forte attrazione soprattutto sui ceti più umili della società, conoscendo, per contro, il disprezzo dei Greci e dei Romani colti, finché, come al Cristianesimo, anche al culto mitraico si volsero ben presto le cerchie più influenti della società imperiale romana. Molti signori furono guadagnati alla nuova fede ad opera dei loro schiavi, proprio come accadde al Cristianesimo. non era raro il caso in cui le più alte cariche religiose venivano ricoperte da schiavi come nella Chiesa primitiva. «In questa confraternita spesso gli ultimi erano i primi, e i primi erano gli ultimi, perlomeno esternamente».

Fra il III e il II secolo la religione mitraica godette presso la corte del medesimo prestigio del Cristianesimo: Diocleziano, Galerio e Licinio consacrarono a Mitra quale protettore dell'impero, un tempio a Carnuntum, sul Danubio, e Massimiano gli innalzò un Mitrèo in Aquileia. I suoi seguaci erano sparsi dappertutto, dalla Spagna al Reno, dalla Britannia alla Gallia, dove gli furono innalzati dei templi a Londra e a Parigi. La fede mitraica lasciò le proprie tracce addirittura in Scozia. Allora per numero di adepti e per influenza sembrò sul punto di superare il Cristianesimo cui fu particolarmente inviso, del quale, per altro, fu da un lato l'avversario più irriducibile, dall'altro il più importante precursore.

Come tutti gli altri culti, anche il Mitriacismo dovette poi soccombere al divieto degli imperatori cattolici: istigati dalla Chiesa, ancora nel II secolo i suoi fedeli vennero perseguitati dai cristiani, i suoi templi saccheggiati, i suoi sacerdoti assassinati sepolti nei sacrari rasi al suolo. Fra le rovine del Mitreo di Salburg è stato ritrovato lo scheletro incatenato del sacerdote pagano, il cui cadavere era stato sepolto in quel luogo per dissacrarlo in perpetuo. A parere di molti studiosi la distruzione di questa religione ebbe successo proprio perché i cristiani innalzavano le proprie Chiese sulle rovine degli antichi luoghi di culto; infatti secondo un'antica credenza, in questo modo la divinità precedente era per così dire resa impotente o addirittura annichilita. Una cripta mitraica pressoché intatta si trova, ad esempio, sotto la chiesa di S. Clemente in Roma, e l'altare è collocato quasi esattamente sopra quello pagano.

La maggior parte dei Mitrei, non meno di quaranta (di cui circa una dozzina solo a Francoforte), sono stati scoperti in Germania, dove il culto di Mitra - dopo le province danubiane - aveva uno dei suoi più importanti punti di forza.

La fede mitraica si mantenne fino al V secolo solo sulle Alpi e sui Vosgi, ma poi fu eliminata anche qui e quasi totalmente dimenticata fino al XIX secolo.

Una delle raffigurazioni più belle di Mitra si trova in San Miniato, a Firenze, sulla tomba di un principe della Chiesa, il Cardinale Giacomo di Portogallo (morto nel 1459).

Asclepio, Eracle, Dioniso, Mitra sono figure mitiche, mentre Gesù, come sostiene trionfalmente la Chiesa, è un personaggio storico e quindi sarebbe tutto veritiero ciò che di lui narra la Bibbia. Ma forse che i miti non possono trapassare anche su personaggi storici? E Buddha, figura storica, non venne divinizzato quasi mezzo millennio prima di Cristo e altrettanto rapidamente? E non ci sono altre figure storiche, che godettero di venerazione religiosa dopo la morte o addirittura quando erano ancora in vita?

domenica 23 dicembre 2007

PRATO. Rinasce l’antico tempio di Bacco

PRATO. Rinasce l’antico tempio di Bacco
MERCOLEDÌ, 19 DICEMBRE 2007 il tirreno - Prato

Affidati al Centro restauro Piacenti i preziosi reperti di Capannori

Le travi romane sono immerse in grandi vasche piene di acqua sterile per ripulirle dalle scorie

Il ritrovamento dei resti di un tempio ligneo dedicato al dio Dioniso (o Bacco) durante gli scavi per la costruzione del nuovo casello autostradale di Capannori, avvenuto nel maggio 2006, viene considerata una scoperta di eccezionale importanza. Si tratta infatti dell’unico edificio in legno di epoca romana che è riuscito a sopravvivere per oltre duemiladuecento anni. E questo grazie alla coltre di limo fluviale che lo ha preservato dagli agenti esterni con una sorta di “effetto Pompei”. Più che immaginabile la cura e l’attenzione con la quale si sta provvedendo al trattamento conservativo delle travi in attesa di una futura esposizione nel museo che la società Autostrade Spa intende costruire proprio sotto il nuovo casello. Da alcuni mesi le dodici travi di quercia, lunghe tre metri e larghe 18 centimetri, sono custodite con religioso amore all’interno del laboratorio di restauro Piacenti di via Marradi.
«Si tratta di un lavoro molto delicato - spiega Gianmarco Piacenti - perché le travi, sopravvissute per tutte questi secoli, sono imbevute d’acqua. Il rischio che si incorre in questi casi è quello di asciugare il legno e vederselo frantumare. Per questo le travi sono al momento mantenute dentro delle vasche riempite con acqua sterile in modo da eliminare tutte le impurità, compresi i batteri, in attesa di arrivare al processo di consolidamento. Lo scopo finale è quello di sostituire l’acqua, che al momento funge per così dire da collante, con un’altra sostanza. Stiamo studiando insieme all’Università di Firenze quale sia la soluzione migliore da adottare. Anche perché - aggiunge Piacenti - vi sono altri esempi, come la nave vichinga di Oslo, che inducono alla prudenza. A distanza di una ventina di anni quel legno infatti si sta sgretolando». Il lavoro si prospetta molto lungo: sono previsti altri tre anni prima di poter pensare di riportare le travi sul luogo del loro ritrovamento. Oltretutto finora la società Autostrade ha finanziato il trattamento conservativo ma non quello di consolidamento. Ma che la società Autostrade crede fermamente in questa entusiasmante operazione di archeologia è fuor di dubbio visto il progetto del museo sotterraneo dedicato ai reperti romani dell’area del Frizzone.
Chi sogna ad occhi aperti aspettando il momento di ricomporre il puzzle romano è il direttore degli scavi del Frizzone, Michelangelo Zecchini, direttore del Dipartimento archeologia dell’Unesco. «E’ una scoperta che è unica al mondo - sottolinea Zecchini - e ci siamo arrivati un po’ per caso. Avevamo esaminato l’area del Frizzone dall’alto e ci appariva relativamente tranquilla. In genere i reperti romani non si trovano in profondità ma sotto un metro di superficie. E così è stato per le “cento fattorie”. Durante le trivellazioni compiute per accertare l’eventuale presenza di ordigni bellici, ad un paio di metri di profondità, abbiamo rinvenuto piccoli frammenti di ceramica. E’ stata quindi delimitata l’area, compiuti saggi in profondità ed abbiamo trovato un bellissimo pavimento. Poi è affiorata una vasca per la produzione del vino. Sono state quindi ampliate le ricerche scoprendo che ci trovavamo davanti ad un’area sacra enorme strutturata in più fasi cronologiche a partire dal 200 a.C. I legni del sacello, il tempietto di legno, che aveva una dimensione di tre metri per tre metri, si sono preservati grazie alle varie alluvioni provocate dall’odierno SerchGiustificaio. Le acque hanno spazzato via il tetto ma hanno ricoperto col limo azzurrognolo la parte interrata. Insieme al legno abbiamo trovato coleotteri e mosche, vegetali, che oggi sono oggetto di studio».
Sempre nella stessa area, insieme alle travi rinvenute anche anfore, bicchieri, boccali, coppe e una terracotta raffigurante Dioniso con la cetra usata come decorazione esterna. «La presenza di un tempietto in pietra, ricostruito 25 anni anni dopo - spiega Zecchini - rappresenta un’ulteriore testimonianza che si trattava di un’area sacra. Lì abbiamo trovato anche quattro scheletri di neonati e i resti ossei di un cane». Tutti reperti che verranno messi in mostra, insieme al tempio ligneo ora affidato alle cure del Centro di restauro Piacenti, nella futura grande teca sotterranea, in modo da offrire un’inedita e preziosa lezione sull’architettura religiosa romana.
Giovanni Ciattini