martedì 6 novembre 2007

Roma: L'Impero bilingue

Corriere della Sera 5.11.07
Un saggio di Paul Veyne sull'influenza fra i due mondi.
Il ruolo dei filosofi e quello dei politici
L'Impero bilingue
Così Roma ereditò la cultura politica della Grecia e diede vita all'originale «assolutismo repubblicano»
di Luciano Canfora
Uno straordinario frammento di papiro trovato oltre dieci anni fa a Tebtunis da uno studioso della Statale di Milano, Aristide Malnati, ma incredibilmente tuttora inedito, contiene un brano trattatistico di filosofia stoica corredato di note a margine. È con molta probabilità un esercizio scolastico, o comunque un testo destinato alla scuola. Non a caso fu trovato nell'area dell'antico ginnasio. Il testo principale parla degli elementi indifferenti (termine tipico del lessico stoico) che non hanno rilievo morale ma rilevanza pratica (ad esempio la ricchezza). Una nota marginale porta l'esempio di Socrate, il quale non avrebbe patito neanche della estrema povertà appunto perché insensibile all'alterno andamento degli «indifferenti».Documenti del genere testimoniano in modo diretto la realtà cui appartennero. In particolare questo spezzone di papiro, per quel che dice e per il luogo dove fu rinvenuto, testimonia un fatto notevole: la penetrazione addirittura nella realtà e quotidianità scolastica, dell'insegnamento degli stoici e dei loro «paradossi». Ma era così paradossale il loro pensiero? Paul Veyne, in un libro importante, diffuso in Francia (editore Seuil) al principio dell'anno passato e ora tradotto per Rizzoli (L'impero greco-romano) non solo mette al centro della forma mentis dei ceti colti del mondo greco- romano, tra Augusto e Marco Aurelio, l'insegnamento stoico, ma soprattutto restituisce allo stoicismo la sua grande forza di attrazione: in quanto pensiero rivolto anch'esso (lo si dimentica spesso) alla ricerca della «felicità». La «grande promessa» della dottrina stoica, infatti, è che l'uomo sottraendosi al predominio dei fattori «indifferenti » raggiungerà la felicità e sarà ormai inattingibile dai dolori, e dunque sarà «un dio mortale». Non sfuggirà quanto, con buona pace di Plutarco e di altri polemisti, questa impostazione sia vicina a quella epicurea, che ugualmente spingendo a non desiderare il superfluo e vagheggiando una forma di «piacere» che in realtà è «assenza di dolore» ugualmente approda a una felicità fondata sulla rinuncia al superfluo nonché alla promessa: «sarai simile a un dio».Veyne osserva — e questo potrebbe essere quasi un bilancio del suo grande affresco — che solo con la scoperta agostiniana della «volontà » in parte almeno impotente e della interiorità lacerata che è in ciascun soggetto, cominciò a declinare l'intellettualismo etico. Esso era stato caratteristico di tutte le scuole di pensiero postaristoteliche, così diffuse nel ceto dirigente dell'«impero bilingue», ma era già del socratismo che in effetti fu la remota matrice di quelle scuole.«Impero bilingue» è definizione appropriata di quella straordinaria fusione tra culture che è stato il segno dominante dell'impero romano. Un unico strato dirigente capace di padroneggiare perfettamente le due culture: «da Augusto in poi — scrisse efficacemente Wilamowitz (1921) — la letteratura mondiale è bilingue». Si esprime cioè indifferentemente nelle due lingue divenute dominanti, il greco e il latino. Ma, nel quadro di tale «condominio» la posizione dei Greci, i quali con Alessandro avevano imposto il greco in un'area vastissima, era ormai, al tempo stesso, politicamente subalterna e culturalmente egemone.I Greci — scrisse Simone Weil quando era molto giovane (1940) — erano «costretti, nella sventura, ad adulare i padroni». E Plutarco prudenzialmente suggeriva ai Greci di non dimenticare mai «gli stivali dei Romani» incombenti sulle loro spalle.Ai Romani, i Greci fornivano anche i modelli politico-costituzionali e la relativa riflessione teorica. Era un terreno ricco di contraddizioni, se solo si pensa alla compresenza — nella realtà del mondo greco ed ellenistico — del modello «repubblicano » della polis, retta da organismi di carattere collettivo anche se non necessariamente democratici, e del modello monarchico diffuso dalla Macedonia nel vasto mondo grecizzato da Alessandro. I teorici si incaricavano di distinguere tra monarca e tiranno, mentre per definire il potere di Pericle un grande storico ateniese aveva coniato la nozione di «princeps».Anche negli esordi di Roma, regnum era diventato, e tale restò stabilmente, un disvalore, anzi il disvalore assoluto. Per questo è grossolano errore, ma pervicace, considerare «monarchico» il tipo di potere che si affermò al vertice dell'impero a partire da Augusto. Da questo punto di vista, che è decisivo per capire la storia romana, il libro di Paul Veyne ha un effetto riparatore di tanti fraintendimenti storiografici a base emotiva. Il fulcro è nel capitolo iniziale «Che cos'era un imperatore romano?».«L'imperatore romano — scrive Veyne giusto in apertura — esercitava una professione ad alto rischio: il trono non gli apparteneva di diritto, ma ne era mandatario per conto della collettività, che lo aveva incaricato di guidare la repubblica (…). Tale delega da parte della comunità non era che una fictio, una ideologia, ma proprio l'esistenza di tale fictio era sufficiente ad impedire al mandatario di avere la legittimità di un re». E cita il gran libro di Béranger sull'«aspetto ideologico del principato » (1953), secondo cui l'impero si autorappresentava come «una successione di grandi patrioti che si fanno carico degli affari pubblici», personalità che hanno ereditato o anche conquistato a viva forza «il diritto di proteggere i loro concittadini e l'impero». Perciò — osserva Veyne — «durante l'impero non si smetterà mai di pronunciare la parola repubblica e non in nome di una finzione ipocrita (…). Il regime imperiale manteneva la sua facciata repubblicana in nome di un compromesso ». Un compromesso che ha in Augusto il suo geniale creatore. Certo, commenta Veyne, «un compromesso zoppo, che sarebbe stato motivo di conflitto perpetuo, perché era una contraddizione che il principe fosse, al tempo stesso, onnipotente e investito da altri del proprio potere ».Simbolo di questa straordinaria capacità romana di intrecciare sistemi e modelli ereditati dalla cultura politica greca, sono per l'appunto le Res Gestae di Augusto, il più celebre testo greco- latino (bilingue!) di tutta l'antichità, di cui John Scheid ha appena pubblicato nella Collection Budé una splendida edizione commentata. Un testo che Augusto fa leggere, post mortem, davanti al Senato, dal suo figlio adottivo ed erede designato, nel quale — al tempo stesso — minacciosamente rivendica la propria carriera eversiva e tuttavia orgogliosamente si ascrive il merito, riconosciutogli anche dagli avversari, di avere «restaurato la repubblica».
Paul Veyne, filologo e storico francese «L'impero grecoromano », Rizzoli, pp.780, euro 28
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commento:
Ormai le scoperte archeologiche ci consentono di scrivere che Roma non debba essere considerata solo come erede dell'Antica Grecia.
Roma aveva ed ha sempre avuto un suo patrimonio storico e culturale, una sua capacità di produrre cultura. La comunanza con la visione del mondo dell'antica Grecia è stata confusa come se Roma avesse ereditato molti elementi della cultura greca.
La tendenza nel vedere in una civiltà come erede di un'altra rientra in una visione "antropologica" monoteista, cioè per questa visione c'è sempre stato un solo ed unico inizio. Come politeisti sappiano che la vita, come la civiltà, ha sempre avuto un inizio policentrico.
Francesco Scanagatta